È interessante, a mio avviso, cercare di lanciare un “ponte”, teoretico naturalmente, che unisca Vico con la filosofia del linguaggio, e quindi con una parte delle argomentazioni inerenti alla cosiddetta “svolta linguistica” che ha così fortemente caratterizzato il pensiero filosofico contemporaneo. Con l’intento di far luce soprattutto sulle “anticipazioni” del filosofo napoletano, anticipazioni, che a mio modo di vedere, fanno di lui, ancor prima dello stesso Humboltd, uno dei primi filosofi del linguaggio. Detto ciò, cercheremo di cogliere allora alcuni spunti interessanti nei confronti di alcune delle più recenti posizioni teorico-linguistiche, che possano avvalersi, sia pure sullo sfondo, della opposizione vichiana universale ragionato vs universale fantastico; e che, al medesimo tempo, possano consentire di leggere quella stessa opposizione vichiana in luce più nitida.
Uno degli obiettivi fondamentali del Tractatus logico–philosophicus, sarà proprio quello di dimostrare come la logica sia interamente costellata da proposizioni tautologiche. In esso viene evidenziato come in realtà ci siano: “Tra i possibili gruppi di condizioni di verità […] due casi estremi. Nel primo caso, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari. Noi diciamo che le condizioni di verità sono tautologiche. Nel secondo caso, la proposizione è falsa per tutte le possibilità di verità: Le condizioni di verità sono contraddittorie[1]”.
Mentre la proposizione (elementare) mostra, il suo senso, sia la tautologia che la contraddizione non ci dicono nulla sul mondo.
Sia “l’assoluta verità” delle proposizioni tautologiche, che “l’assoluta falsità” delle proposizioni contraddittorie, minano la loro stessa giocabilità sul piano della realtà. Un esempio di tautologia è “Piove oppure non piove”, uno di contraddizione “Piove e non piove”: “La tautologia lascia alla realtà la – infinita – totalità dello spazio logico; la contraddizione riempie tutto lo spazio logico e non lascia alla realtà alcun punto. Nessuna delle due, quindi, può in qualche modo determinare la realtà”[2].
Già Leibniz e poi lo stesso Hume, presero posizione riguardo al carattere contingente (e quindi non necessario) delle proposizione che si riferiscono ai fatti del mondo.
Leibniz, impegnò tutta la sua attività speculativa, proprio nell’intento di garantire l’esistenza di un ordine che includa la possibilità della scelta (sia divina che umana), e quindi la possibilità di un ordine contingente. La nota distinzione tra verità di fatto e verità di ragione, costituisce uno dei punti più importanti del suo pensiero. La prima, come è risaputo, è giustificata dal cosiddetto “principio di ragion sufficiente” che suona così: “vi è una ragione nella natura, perché esista qualcosa piuttosto che nulla. Ciò consegue da quel grande principio, che nulla avviene senza ragione, ed allo stesso modo è necessario che vi sia una ragione perché esista questo, piuttosto che quell’altro”[3].