Il sogno come colophon del dubbio

Fonte: Jacques Lacan, Il Seminario – Libro XI – I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Enaudi, Torino, 2003, p. 43-44

Quando Freud ha capito che era nel campo del sogno che do­veva trovare la conferma di ciò che gli aveva insegnato l’espe­rienza dell’isterica e ha cominciato a inoltrarvisi con un ardimento veramente senza precedenti, che cosa ci ha detto allora dell’in­conscio? Egli afferma che è costituito essenzialmente non da ciò che la coscienza può evocare, estendere, reperire, far uscire dal subliminale, ma da ciò che gli è, per essenza, rifiutato. E come lo chiama Freud? Con il termine stesso con cui Cartesio designa ciò che prima ho chiamato il suo punto d’appoggio – Gedanken, pensieri. Ci sono dei pensieri nel campo dell’al di là della coscienza, ed è impossibile rappresentare questi pensieri altrimenti che in quella stessa omologia di determinazione in cui si trova il soggetto dell’io penso rispetto all’articolazione dell’io dubito.

Cartesio coglie il suo io penso nell’enunciazione dell’io dubito, non nel suo enunciato che trasporta ancora tutto quel sapere che deve essere messo in dubbio. Dirò che Freud fa un passo in piu – che ci indica a sufficienza la legittimità della nostra associazio­ne – quando ci invita a integrare al testo del sogno quello che chia­merò il colophon del dubbio – il colophon, nei vecchi testi, è la ma­nina indicativa stampata sul margine, al tempo in cui si aveva an­cora una tipografia. Il colophon del dubbio fa parte del testo. Questo ci indica che Freud pone la sua certezza, Gewiβsheit, uni­camente nella costellazione dei significanti cosi come risultano dal racconto, dal commento, dall’associazione, poco importa la ritrat­tazione. Tutto viene a fornire del significante, e su questo egli con­ta per stabilire la sua propria Gewiβsheit – sottolineo, infatti, che l’esperienza comincia solo con il suo modo di procedere. Ed è per questo che lo paragono al modo di procedere cartesiano.

Non dico che Freud introduce il soggetto nel mondo – il sog­getto come distinto dalla funzione psichica, che è un mito, una ne­bulosa confusa – poiché è Cartesio a farlo. Ma dirò che Freud si rivolge al soggetto per dirgli una cosa, che è nuova – Qui, nel cam­po del sogno, tu sei a casa tua. Wo es war, soll Ich werden.

Questo non vuol dire, come enuncia una schifezza di tradu­zione – Le moi doit déloger le ça, L’io deve sloggiare l’Es. Sentite come si traduce Freud in francese, quando una formula come que­sta ha la stessa risonanza di quelle dei presocratici. Non si tratta dell’io in questo soll Ich werden. Si tratta di ciò che l’Ich è, sotto la penna di Freud, dall’inizio fino alla fine – quando si a, benin­teso, riconoscere il suo posto – il luogo completo, totale, della re­te dei significanti, cioè il soggetto, là aú c’était, là dove era, da sempre, il sogno. In questo posto gli antichi riconoscevano ogni sorta di cose, eventualmente i messaggi degli dèi – e perché mai avrebbero avuto torto? Dei messaggi degli dèi, ne facevano pure qualcosa. Inoltre, e lo intravedrete forse nel seguito del mio discorso, non è escluso che ci siano sempre – anche se per noi fa lo stesso. Quello che ci interessa è il tessuto che ingloba questi mes­saggi, è la rete in cui, all’occasione, qualcosa viene preso. Forse la voce degli dèi si fa sentire, ma è da molto tempo che, nei loro con­fronti, le nostre orecchie sono state rese al loro stato originale ognuno sa che sono fatte per non sentire affatto.