Intervista rilasciata da Jacques Lacan a Emilia Granzotto pubblicata su Panorama, Roma, 21 novembre 1974.
D. – L’analisi come dialogo, dunque. C’è gente che la interpreta piuttosto come un succedaneo laico della confessione…
R. – Macché confessione. Allo psicoanalista non si confessa un bel niente. Si va a dirgli, semplicemente, tutto quello che passa per la testa. Parole, appunto. La scoperta della psicoanalisi è l’uomo come animale parlante. Sta all’analista mettere in fila le parole che ascolta e dargli un senso, un significato. Per fare una buona analisi ci vuole accordo, affiatamento fra analizzante e analista. Attraverso le parole dell’uno, l’altro cerca di farsi un idea di che cosa si tratta, e di trovare al di là del sintomo apparente il difficile nodo della verità. Altra funzione dell’analista è spiegare il senso delle parole, per far capire al paziente che cosa può aspettarsi dall’analisi.
D. – È un rapporto di estrema fiducia..
R. – Piuttosto uno scambio. In cui l’importante è che uno parli e l’altro ascolti. Anche in silenzio. L’analista non fa
domande e non ha idee. Dà solo le risposte che ha voglia di dare, alle domande che suscitano questa voglia. Ma alla fine l’analizzante va sempre dove l’analista lo porta.
D. – Questa la cura. E le possibilità di guarigione ? Dalla nevrosi si esce ?
R. – La psicoanalisi riesce quando sbarazza il campo sia dal sintomo sia dal reale. Cioè arriva alla verità.
D. – Si può spiegare lo stesso concetto in modo meno lacaniano ?
R. – Io chiamo sintomo tutto quello che viene dal reale. E il reale è tutto quello che non va, che non funziona, che ostacola la vita dell’uomo e l’affermazione della sua personalità. Il reale torna sempre allo stesso posto, lo trovi sempre lì, con le stesse sembianze. Gli scienziati hanno un bel dire che niente è impossibile nel reale. Ci vuole molta faccia tosta per affermazioni del genere. Oppure, come io sospetto, la totale ignoranza di ciò che si fa e si dice. Reale e impossibile sono antitetici, non possono andare insieme. L’analisi spinge il soggetto verso l’impossibile, gli suggerisce di considerare il mondo com’è veramente, cioè immaginario, senza senso. Mentre il reale, come un uccello vorace, non fa che nutrirsi di cose sensate, di azioni che hanno un senso. Ci si sente sempre ripetere che bisogna dare un senso a questo e a quello, ai propri pensieri, alle proprie aspirazioni, ai desideri, al sesso, alla vita. Ma della vita non sappiamo niente di niente, come si affannano a spiegarci gli scienziati. La mia paura è che, per colpa loro, il reale, cosa mostruosa che non esiste, finirà per prendere il sopravvento. La scienza si sta sostituendo alla religione, altrettanto dispotica, ottusa e oscurantista. C’è un dio atomo, un dio spazio, eccetera. Se vince la scienza, o la religione, la psicoanalisi è finita.