Il nostro vivere, costitutivamente, porta a confrontarci con la nostra fine. Nel nostro essere in vita è già presente una forma di mortalità, di caducità. È già in gioco la questione della sparizione. Per ridurre gli effetti di tale sparizione abbiamo la scrittura, la traccia, la registrazione, il lasciar traccia in genere.
Da un lato c’è l’idea del impermanente e caduco, dall’altro un’idea di sopravvivenza mediante la traccia: monumenti, manoscritti, scritti, opere d’arte. Tracce per ovviare a questa radicale e indissolubile caducità dell’essere umano. Quella di Derrida è un “ontologia ansiosa”: nel cuore della presenza, dell’essere, di quello che c’è, è insita la possibilità della sparizione.
Dopo l’invenzione del telefono, perché scrivere ancora? Se riesci a registrare, hai definito qualcosa, una presenza. Diversamente, il parlare è effimero. La scrittura non scompare. In La voce e il fenomeno, un commento a Husserl, Deridda si chiede che cosa sia che noi definiamo come presenza, come presente? La stanza in cui mi trovo adesso è più presente di quanto io sia presente in questa stanza: infatti io qualche ora fa non ero in questa stanza, e fra poco non vi sarò più. L’essere presente della stanza è più presente di me stesso in quanto, come abitatore di questa stanza, sono temporaneo. La presenza, dunque, è la possibilità della sparizione. Ciò che c’era prima di me è il presente, che è, del resto, ciò che ci sarà, dopo di me. Il presente implica la possibilità che ci sia qualcosa di meno presente. Io sono meno presente del mondo perché il mondo c’era già quando vi ci sono venuto e continuerà ad esserci anche quando non ci sarò più, in questo mondo.