Fonte: M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, pagg. 40-42
La TV è un medium freddo, partecipazionale. Se riscaldata dalla drammatizzazione e da altri stimoli funziona meno bene perché offre minori possibilità di partecipazione. La radio è invece un medium caldo e funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo o come controllo dei rumori, come quando l’ingegnoso teenager l’adopera per garantire la propria privacy. La TV non può essere uno sfondo. Ci impegna. Ci assorbe. […] L’immagine televisiva non ha nulla in comune con il cinema o con la fotografia, se non il fatto di offrire una Gestalt, o una disposizione di forme, non verbale. Con la TV lo spettatore è lo schermo. Esso viene bombardato da impulsi leggeri che James Joyce definiva la “Carica della brigata leggera” e che imbevono la “pelle della sua anima di sospetti sobconscious” [gioco di parole tra subconscious, “subconscio” e sob, “singhiozzo”]. L’immagine televisiva è visivamente scarsa di dati. Non è un fotogramma immobile. Non è neanche una fotografia ma un profilo in continua formazione di cose dipinte da un pennello elettronico. L’immagine televisiva offre allo spettatore circa tre milioni di puntini al secondo, ma egli ne accetta soltanto qualche dozzina per volta e con esse costruisce un’immagine.
L’immagine cinematografica offre ogni secondo molti milioni di dati in piú e lo spettatore, per formarsi un’impressione, non deve effettuare la stessa drastica riduzione, ma accettarla in blocco. Viceversa, lo spettatore del mosaico televisivo, dove l’immagine è controllata tecnicamente, riconfigura inconsapevolmente i puntini in un’astratta opera d’arte simile a quelle di Seurat o di Rouault. A chi domandasse se tutto questo cambierebbe una volta che la tecnologia intensificasse il carattere dell’immagine televisiva, sino a portarla al livello del cinema, si potrebbe ribattere solo con un’altra domanda: “Possiamo modificare i tratti di un cartoon fumettistico aggiungendo particolari di prospettiva, di luci e di ombre?” E la risposta è: “Sí, solo che non sarebbe piú un cartoon”. Come una TV migliorata non sarebbe piú una televisione. Oggi l’immagine televisiva è un mosaico di puntini chiari e scuri, e quella cinematografica non lo è mai, per quanto tecnicamente mediocre possa essere.
Come qualunque altra forma a mosaico, anche la TV non conosce la terza dimensione, che può però esserle sovraimposta. Alla TV l’illusione della terza dimensione è data, sino a un certo punto, dalla scenografia costruita in studio ma l’immagine in se stessa è un piatto mosaico bidimensionale. L’illusione tridimensionale è in buona parte un residuo dell’abitudine di guardare film e fotografie. La telecamera infatti non ha una propria angolazione visuale come la cinepresa. La Eastman Kodak produce ora una cinepresa bidimensionale che può ottenere gli stessi effetti di piattezza della telecamera. Ma per le persone alfabete, avvezze ai punti di vista fissi e a una visione tridimensionale, è difficile capire le proprietà della visione bidimensionale. Altrimenti non avrebbero avuto difficoltà a capire l’arte astratta, e la General Motors non avrebbe fatto tanti pasticci con la linea delle auto, e le riviste illustrate non faticherebbero tanto a stabilire un rapporto tra articoli e inserzioni pubblicitarie. L’immagine televisiva ci chiede in ogni istante di “chiudere” gli spazi del mosaico con una convulsa partecipazione dei sensi che è profondamente tattile e cinetica, perché il tatto è un rapporto tra tutti i sensi e non il contatto isolato tra pelle e oggetto.