Kant, l’io penso, l’unità trascendentale

Fonte: Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 110-117

L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; ché altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o, almeno per me, non sarebbe. Quella rappresentazione che può esser data prima di ogni pensiero, dicesi intuizione. Ogni molteplice, dunque, della intuizione ha una relazione necessaria con l’Io penso, nello stesso soggetto in cui questo molteplice s’incontra. Ma questa rappresentazione è un atto della spontaneità, cioè non può esser considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, poiché è appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione Io penso, — che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica, — non può più essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di essa la chiamo pure unità trascendentale della autocoscienza, per indicare la possibilità della conoscenza a priori, che ne deriva. Giacché le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza; cioè, in quanto mie rappresentazioni (sebbene io non sia consapevole di esse, come tali), debbono necessariamente sottostare alla condizione in cui soltanto possono coesistere in una universale autocoscienza, poiché altrimenti non mi apparterrebbero in comune. Da questa originaria unificazione possono seguire molte conseguenze.

E cioè: questa identità comune dell’appercezione di un molteplice dato nell’intuizione, contien una sintesi delle rappresentazioni, ed è possibile solo per la coscienza di questa sintesi. Infatti la coscienza empirica, che accompagna diverse rappresentazioni, è in sé dispersa e senza relazione con, l’identità del soggetto. Questa relazione dunque non ha luogo ancora per ciò che io accompagno colla coscienza ciascuna delle rappresentazioni, ma perché le compongo tutte l’una con l’altra, e sono consapevole della loro sintesi. Solo perciò, in quanto posso legare in una coscienza una molteplicità di rappresentazioni date, è possibile che io mi rappresenti l’identità della coscienza in queste rappresentazioni stesse; cioè, l’unità analitica dell’appercezione è possibile solo a patto che si presupponga una unità sintetica1. Il pensiero: queste rappresentazioni date nell’intuizione mi appartengon tutte, — suona lo stesso che: io le unisco in una autocoscienza, o almeno posso unirvele; e, sebbene esso non sia ancora la coscienza della sintesi delle rappresentazioni, ne presuppone tuttavia la possibilità; cioè, io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie rappresentazioni, solo perché io posso comprendere la loro molteplicità in una coscienza; altrimenti io dovrei avere un Me stesso variopinto, diverso, al pari delle rappresentazioni delle quali ho coscienza. Ljanità sintetica del molteplice delle intuizioni, in quanto data a priori, è dunque il fondamento della identità dell’appercezione stessa, che precede a priori ogni mio pensiero determinato. Ma l’unificazione non è dunque negli oggetti, e non può esser considerata come qualcosa di attinto da essi per via di percezione, e per tal modo assunto primieramente nell’intelletto; ma è soltanto una funzione dell’intelletto, il quale non è altro che la facoltà di unificare a priori, e di sottoporre all’unità dell’appercezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la conoscenza umana.

Ora, questo principio della unità necessaria dell’appercezione, è in verità esso stesso una proposizione identica, e perciò analitica; tuttavia chiarisce per necessaria una sintesi del molteplice dato in una intuizione; sintesi, senza la quale non sarebbe possibile pensare quella identità della autocoscienza. Dall’Io infatti, come rappresentazione comune non è dato nessun molteplice; questo può essere dato solo nell’intuizione, che è altra cosa, e può esser pensato solo mediante l’unificazione in una coscienza. Un intelletto, nel quale ogni molteplicità fosse data immediatamente dall’autocoscienza, intuirebbe, ma il nostro intelletto può solamente pensare, e deve cercare nei sensi l’intuizione. Io sono dunque consapevole dell’identico me stesso rispetto al molteplice delle rappresentazioni datemi in una intuizione, poiché chiamo tutte insieme mie le rappresentazioni, che ne formano una. Il che è come dire, che io son consapevole di una loro necessaria sintesi a priori, la quale significa appunto l’unità sintetica originaria dell’appercezione, nella quale stanno tutte le rappresentazioni che mi son date, ma nella quale altresì è necessario che esse sieno state portate in virtù di una sintesi. Secondo l’Estetica trascendentale, il principio supremo della possibilità di ogni intuizione in rapporto alla sensibilità era: ogni molteplice di essa sottosta alle condizioni formali dello spazio e del tempo. Il principio supremo della possibilità stessa in rapporto all’intelletto è: che ogni molteplice dell’intuizione sottosta alle condizioni della unità sintetica originaria dell’appercezione. Tutte le molteplici rappresentazioni dell’intuizione sono soggette al primo, in quanto esse ci son date; al secondo, in quanto debbono poter essere unificate in una coscienza; perché senza di ciò niente può esser pensato e conosciuto, perché le rappresentazioni date non avrebbero comune l’atto appercettivo Io penso, e non sarebbero perciò mai unificate in una autocoscienza. L’intelletto è, per parlare in generale, la facoltà delle conoscenze. Queste consistono nel rapporto determinato di date rappresentazioni con un oggetto. Ma l’oggetto è ciò, nel cui concetto il molteplice di una data intuizione è unificato. Se non che ogni unificazione delle rappresentazioni richiede l’unità della coscienza nella sintesi di esse. Dunque, l’unità della coscienza è ciò che solo costituisce il rapporto delle rappresentazioni con un oggetto, e quindi la loro validità oggettiva, ossia ciò che le fa conoscenze, e su cui perciò riposa la possibilità dell’intelletto.

Così, la prima conoscenza pura dell’intelletto, sulla quale è fondato tutto il resto del suo uso, e che è insieme affatto indipendente da tutte le condizioni dell’intuizione sensibile, è ora il principio dell’unità sintetica, originaria dell’appercezione. La semplice forma, adunque, dell’intuizione sensibile esterna, lo spazio, non è ancora punto conoscenza; non fa se non presentare il molteplice dell’intuizione a priori per una possibile conoscenza. Ma per poter conoscere una cosa qualsiasi nello spazio, per es. una linea, io debba tracciarla, cioè eseguire sinteticamente una determinata unificazione del molteplice dato, per modo che l’unità di questa operazione sia a un tempo l’unità della coscienza (nel concetto di linea); e così primamente vien conosciuto un oggetto (uno spazio determinato). L’unità sintetica della coscienza è dunque una condizione oggettiva di ogni conoscenza, della quale non soltanto io stesso ho bisogno per conoscere un oggetto, ma alla quale deve sottostare ogni intuizione per divenire oggetto per me, poiché in altro modo, e senza questa sintesi, il molteplice non si unificherebbe in una coscienza.

L’ultima proposizione, come s’è detto, è essa stessa analitica, sebbene per vero faccia dell’unità sintetica la condizione di ogni pensiero; giacché altro non dice se non che: tutte le mie rappresentazioni in una qualsiasi intuizione data debbono sottostare a quella condizione, per cui soltanto io posso attribuirle all’identico Me stesso, come mie rappresentazioni, e perciò posso comprenderle come unite insieme sinteticamente in un’appercezione nell’espressione generale: Io penso.

Ma questo principio non è valido per ogni possibile intelletto in generale, bensì solo per quello, dalla cui appercezione pura, nella rappresentazione «Io sono», nulla ancora è dato di molteplice. Quell’intelletto, invece, dalla cui autocoscienza fòsse datò insieme il molteplice dell’intuizione, un intelletto, per la cui rappresentazione già esistessero insieme gli oggetti della rappresentazione stessa, non avrebbe bisogno di quel particolare atto di sintesi del molteplice nel-l’unità della coscienza, del quale ha bisogno l’intelletto umano, che pensa semplicemente, e non intuisce. Ma è inevitabile il primo principio per l’intelletto umano, di guisa che esso non può farsi nemmeno la più piccola idea di un altro possibile intelletto, che o intuisse da sé senz’aitro, o possedesse a fondamento una intuizione sensibile, ma di diversa natura di quella che è nello spazio e nel tempo.

 

§ 18. Che cosa sia l’unità oggettiva della autocoscienza

 

L’unità trascendentale dell’appercezione è quella, per la quale tutto il molteplice dato da una intuizione è unito in un concetto dell’oggetto. Perciò essa si chiama oggettiva, e deve essere distinta dall’unità soggettiva della coscienza, che è una determinazione del senso interno, onde quel molteplice dell’intuizione è dato empiricamente per una tale unificazione. Se io possa empiricamente esser consapevole del molteplice, come simultaneo o come successivo, dipende da circostanze o da condizioni empiriche; quindi l’unità empirica della coscienza per mezzo dell’associazione delle rappresentazioni stesse, riguarda un fenomeno, ed è al tutto accidentale. Al contrario, la forma pura dell’intuizione nel tempo, semplicemente come intuizione in generale, che contiene una molteplicità data, sottosta all’unità originaria della coscienza esclusivamente per il rapporto necessario del molteplice dell’intuizione all’unico «Io penso»; perciò per la sintesi pura dell’intelletto, che a priori sta a base dell’empirica. Soltanto quell’unità è oggettivamente valida; l’unità empirica, invece, dell’appercezione, che qui noi non esaminiamo, e che solo sotto condizioni date deriva in concreto dalla prima, ha un valore soltanto soggettivo. Uno collega la rappresentazione d’una certa parola con una certa cosa, un altro con un’altra; e l’unità della coscienza in ciò che è empirico, e rispetto a ciò che è dato, non è necessariamente e universalmente valida. Io non ho mai potuto appagarmi della definizione, che i logici danno del giudizio in generale; esso è, secondo loro, la rappresentazione di un rapporto fra due concetti. Ora, senza stare qui a contrastare con essi intorno a quel c’è di difettoso in questa definizione (che in ogni caso non si applica se non ai giudizi categorici, ma non agli ipotetici e disgiuntivi, in quanto questi ultimi non contengono una relazione di concetti, ma addirittura di giudizi); e tralasciando le noiose conseguenze derivate da questa svista della logica1, noto soltanto che qui non è determinato in che consista questo rapporto. Ma se io investigo più profondamente il rapporto delle conoscenze date in ciascun giudizio, e distinguo questo rapporto, come appartenente all’intelletto, dal rapporto secondo leggi della immaginazione riproduttiva (il quale ha un valore solamente soggettivo), trovo che il giudizio non è altro che la maniera di ridurre conoscenze date alla unità oggettiva dell’appercezione. E la particella relativa «è» mira appunto a distinguere l’unità oggettiva delle rappresentazioni date, dall’unità soggettiva. Essa infatti designa la loro relazione con l’appercezione originaria e la loro unità necessaria, anche quando il giudizio stesso sia empirico, e perciò accidentale, come ad es.: i corpi sono pesanti. Con ciò non voglio dire già, che queste rappresentazioni nell’intuizione empirica siano necessaria mente subordinate l’una all’altra; ma che esse sono l’una all’altra subordinate mercé l’unità necessaria dell’appercezione nella sintesi delle intuizioni, e cioè secondo princìpi della determinazione oggettiva di tutte le rappresentazioni, in quanto possa risultarne una conoscenza; i quali principi sono derivati tutti da quello dell’unità trascendentale dell’appercezione. Solamente così da questo rapporto nasce un giudizio, ossia un rapporto valido oggettivamente, e che si distingue appunto dal rapporto delle rappresentazioni medesime in cui ci sia solamente un valore soggettivo, per es., secondo le leggi dell’associazione. Secondo queste, io potrei dire soltanto: «quando porto un corpo, sento un’impressione di peso»; ma non: «esso, il corpo, è pesante»; che vai quanto dire che le due rappresentazioni sono unite nell’oggetto, indipendentemente cioè dallo stato del soggetto, e non stanno insieme semplicemente nella percezione (per quanto spesso essa possa essere ripetuta). Tutte le intuizioni sensibili sottostanno alle categorie, come condizioni in cui soltanto il molteplice di quelle può raccogliersi in una coscienza. II molteplice dato in una intuizione sensibile è necessariamente subordinato all’unità sintetica originaria dell’appercezione, poiché solo per essa è possibile l’unità dell’intuizione (§ 17). Quell’operazione dell’intelletto, per cui il molteplice di rappresentazioni date (sieno intuizioni o concetti) è ricondotto ad una appercezione in generale, è la funzione logica dei giudizi. Così ogni molteplicità, in quanto è data in una intuizione empirica, è determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare, onde essa cioè vien portata a una coscienza in generale. Ma le categorie non sono altro che proprio queste funzioni di giudicare, in quanto il molteplice di una data intuizione (§ 13″) è determinato rispetto ad esse. Il molteplice dunque di una data intuizione è sottoposto necessariamente alle categorie.