L’uso della parola “è”

In uno degli scritti fondativi della filosofia del linguaggio, Concetto e oggetto, di Frege (1892), la questione è trattata a partire da due aspetti che io ho trovato cardinali nell’intera indagine fregeana: (1) “Se si trova qualcosa che è semplice o che per il momento deve valere come tale, si dovrà coniare una nuova denominazione, giacché la lingua non ha un’espressione ad esso esattamente corrispondente”[1]; (2) “Il concetto, come intendo io la parola, è predicativo”[2], cioè esso è ciò a cui si riferisce il predicato grammaticale, più semplicemente: esso è la denotazione di quest’ultimo.

Partendo da queste due importanti premesse, Frege s’interroga sulle diverse sfumature con cui può essere usata la parola “è”, soprattutto mostrando come questa “semplice” parolina possa trarre facilmente in inganno. Infatti essa può essere usata come  “copula”: “il prato è verde”, “il cane è un mammifero”; o come segno di “eguaglianza” aritmetica: “Il discepolo di Aristotele è Alessandro Magno”, “La stella del mattino è Venere”. In questi due ultimi casi, , abbiamo due nomi propri per enunciato, in quanto, come è noto,  per Frege i nomi propri sono sinonimi o abbreviazioni di descrizioni definite e quindi, sia “Venere” e sia “la stella del mattino” sono nomi propri : “Nell’enunciato ‘La stella del mattino è Venere’ abbiamo due nomi propri, ‘la stella del mattino’ e ‘Venere’ per lo stesso oggetto”[3]. In questi due enunciati in questione l’ “è” non vale come copula, bensì come equazione, e come è noto, ogni equazione è reversibile, ma, come osserva ancora Frege: “il cadere di un oggetto sotto un concetto non è una relazione reversibile”[4]. Tralasciando la già trattata questione concernente la concezione del nome proprio nella teoria fregeana-russeliana, mi premeva far luce sullo stratagemma che Frege stesso è stato costretto ad inventare per far sì che il nome “Venere” diventasse un predicato e cioè trasformando la frase in questione in “La stella del mattino non è altro che Venere”[5], “questa volta – continua Frege –  l’‘è’ di ‘non è altro che Venere’ è davvero copula. Ciò che qui viene asserito non è Venere ma non altro che Venere: queste parole denotano un concetto sotto il quale cade sicuramente un solo oggetto”[6]. Operando così Frege sembra eludere, a mio personalissimo parere, il reale problema concernente la parola “è”, che invece meriterebbe una diversa trattazione. Certamente mi si potrà obiettare che Frege veste meglio gli abiti del logico-matematico che quelli del filosofo, certo, ma a mio parere, il problema della parola “essere” rimane, e giuste e pertinenti sono le considerazione heideggeriane a tal proposito: “Abbiamo noi oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la parola ‘ essente’? Per nulla. È dunque necessario riproporre il problema del senso dell’essere. Ma siamo almeno in una stato di perplessità per il fatto di non comprendere l’espressione ‘ essere’? Per nulla”[7].

Heidegger evidenzierà come la parola ‘è’ è stata degradata a copula, e dunque come “il senso ontologico dell’ ‘è’, una teoria del tutto estrinseca della proposizione e del giudizio sia stato deformato a ‘copula’”[8].


[1] G. Frege, Concetto e oggetto, in La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, Milano, Bompiani, 1985, p.374.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 375.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] M. Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1976, p.14. C.vo mio.

[8] Ivi, p. 419.