Fonte: M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano, 1977, pagg. 632-633
Nella storia occidentale, l’esperienza della follia si è disposta lungo questa scala. In verità, essa ha per lungo tempo occupato una regione incerta, per noi difficile da precisare, tra l’interdizione dell’azione e quella del linguaggio: da qui l’importanza esemplare della coppia furor-inanitas che ha praticamente organizzato, secondo i registri del gesto e della parola, il mondo della follia sino al termine del Rinascimento. L’epoca della reclusione (gli Hôpitaux Généraux, Charenton, Saint-Lazare, istituiti nel XVII secolo) segna una migrazione della follia verso la regione dell’insensato; la follia non conserva con gli atti interdetti che una parentela morale (resta essenzialmente legata alle interdizioni sessuali), ma è inclusa nell’universo delle interdizioni di linguaggio; la reclusione classica racchiude con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola, l’ostinazione nell’empietà e nell’eterodossia, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia – in breve tutto ciò che caratterizza il mondo parlatoe interdetto nella sragione; la follia è il linguaggio escluso – quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli “insensati”, gli “imbecilli”, i “dementi”), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i “violenti”, i “furiosi”), o ancora quello che fa passare significati interdetti (i “libertini”, i “testardi”). Di questa repressione della follia come parola interdetta, la riforma di Pinel è molto piú un compimento visibile che una modificazione.
La modificazione non si produsse realmente se non con Freud, quando l’esperienza della follia si è spostata verso l’ultima forma di interdizione del linguaggio di cui parlavamo piú sopra. Ha cessato allora di essere errore di linguaggio, bestemmia proferita, o significato intollerabile (e in questo senso la psicanalisi è veramente la grande rimozione delle interdizioni, come diceva lo stesso Freud); è apparsa come una parola che si avvolge su se stessa, dicendo, al di sotto di ciò che dice, altre cose delle quali è al tempo stesso il solo codice possibile: linguaggio esoterico, se si vuole, poiché trattiene la sua lingua all’interno di una parola che alla fin fine non dice altre cose che questa implicazione.
Occorre dunque prendere l’opera di Freud per quel che è; essa non scopre il fatto che la follia è presa in una rete di significati comuni con il linguaggio di tutti i giorni, autorizzando cosí a parlarne nella piattezza quotidiana del vocabolario psicologico. Essa disloca l’esperienza europea della follia per situarla in quella regione pericolosa, trasgressiva sempre (dunque ancora interdetta, ma in una modalità particolare) che è quella dei linguaggi che si implicano essi stessi, enunciando cioè nel loro enunciato la lingua nella quale lo enunciano. Freud non ha scoperto l’identità perduta di un senso; ha delimitato la figura irrompente di un significante che non è assolutamente come gli altri. La qual cosa avrebbe dovuto essere sufficiente a proteggere la sua opera da tutte le interpretazioni psicologizzanti con cui questi cinquant’anni l’hanno ricoperta nel nome (derisorio) delle “scienze umane” e della loro unità asessuata.