Fonte: H. Arendt, Vita activa, trad. it. a cura di F. Finzi, Bompiani, Milano, 1964, pagg. 24-25
La concezione dell’immortalità dei Greci emerse dalla loro esperienza di una natura immortale e di dèi immortali che insieme circondavano le vite singole degli uomini mortali. Immersa in un cosmo dove ogni cosa era immortale, la mortalità diveniva il contrassegno dell’esistenza umana. Gli uomini sono “i mortali”, le sole cose mortali esistenti, perché diversamente dagli animali essi non esistono soltanto come membri di una specie la cui vita immortale è garantita attraverso la procreazione. La mortalità degli uomini dipende dal fatto che la vita individuale, con una storia riconoscibile dalla nascita alla morte, emerge dalla vita biologica. Questa vita individuale si distingue da tutte le altre cose per il corso rettilineo del suo movimento, che, per cosí dire, taglia quello circolare della vita biologica. La mortalità è questo: muoversi lungo una linea retta in un universo dove ogni cosa, qualsiasi movimento faccia, lo fa in un ordine ciclico.
Il compito e la potenziale grandezza dei mortali sta nella loro capacità di produrre cose – lavori, azioni e parole – che potrebbero essere, e che almeno fino a un certo punto sono, degne dell’eternità, cosí che grazie a esse i mortali possano trovare posto in un cosmo dove tutto è immortale tranne loro stessi. Dal momento che possono compiere cose immortali e che possono lasciarsi alle spalle tracce imperiture, gli uomini, nonostante la mortalità individuale, conseguono essi stessi un’immortalità e rivelano una natura “divina”. La distinzione tra l’uomo e l’animale è implicita nella stessa specie umana: soltanto i migliori (áristoi) che costantemente provino di essere i migliori (aristeúein, una parola che non ha un valido equivalente in nessun’altra lingua) e che “preferiscano una fama immortale alle cose mortali”, sono realmente umani; gli altri, che si appagano di qualsiasi piacere la natura procuri loro, vivono e muoiono come animali.