Fonte: A. Tarski, Truth and Proof, trad. it. in E. Casari, La filosofia della matematica del ‘900, Sansoni, Firenze, 1973, pagg. 80-84
Ci si può chiedere ora se possa definirsi in modo preciso un concetto di verità e quindi se possa stabilirsi un uso coerente e adeguato di questo concetto, almeno per i linguaggi semanticamente limitati del discorso scientifico. Sotto certe condizioni la risposta a tale domanda risulta affermativa. Le principali condizioni imposte al linguaggio sono che il suo vocabolario sia completamente ed esplicitamente determinato e che siano formulate con precisione le regole sintattiche che riguardano la formazione delle proposizioni e delle altre espressioni sensate a partire dalle parole elencate nel vocabolario. Inoltre le regole sintattiche debbono essere puramente formali, cioè debbono riferirsi esclusivamente alla forma (forma esteriore) delle espressioni; la funzione e il significato di una espressione debbono dipendere esclusivamente dalla sua forma. In particolare, osservando un’espressione si deve essere in grado in ciascun caso di decidere se è una proposizione o no; non deve mai capitare che un’espressione assolva da qualche parte la funzione di proposizione mentre un’espressione della stessa forma non si comporti cosí da qualche altra parte, oppure che una proposizione possa essere asserita in un certo contesto mentre una proposizione della stessa forma possa essere negata in un altro. Ne segue, in particolare, che pronomi e avverbi dimostrativi quali “questo” e “qui” non dovranno comparire nel vocabolario del linguaggio; i linguaggi che soddisfano a queste condizioni verranno detti linguaggi formalizzati. Quando si studia un linguaggio formalizzato non è necessario distinguere fra espressioni della stessa forma che sono state scritte o pronunciate in luoghi diversi; spesso se ne parla come di una stessa espressione. Il lettore può aver notato che talvolta si usa questo modo di parlare anche nel trattare un linguaggio naturale, cioè che non sia formalizzato: si fa cosí per semplicità e solo in quei casi in cui non sembra esserci pericolo di confusione.
I linguaggi formalizzati sono del tutto adeguati per la presentazione di teorie logiche e matematiche; non vedo alcuna ragione essenziale perché non possano venire adattati sí da poter essere impiegati in altre discipline scientifiche, e in particolare nello sviluppo delle parti teoriche delle scienze empiriche. Vorrei sottolineare che nell’usare il termine “linguaggi formalizzati” non mi riferisco esclusivamente a quei sistemi linguistici che sono formulati completamente in simboli, né penso a qualcosa di essenzialmente opposto ai linguaggi naturali. Al contrario, gli unici linguaggi formalizzati che sembrano essere di un qualche interesse reale sono quelli che sono frammenti dei linguaggi naturali (frammenti provvisti di un vocabolario completo e di precise regole sintattiche) o quelli che almeno possano essere adeguatamente tradotti nei linguaggi naturali.
Ci sono alcune condizioni ulteriori dalle quali dipende la realizzazione del nostro programma. Si dovrebbe dare una rigida distinzione fra il linguaggio che è l’oggetto del nostro studio e per il quale in particolare si vuole costruire la definizione di verità e il linguaggio nel quale la definizione deve essere formulata e le sue implicazioni studiate. Quest’ultimo verrà detto metalinguaggio, e il primo linguaggio oggetto. Il metalinguaggio deve essere sufficientemente ricco; in particolare deve contenere come parte il linguaggio oggetto. Infatti secondo le nostre convenzioni una definizione adeguata di verità implicherà come conseguenze tutte le definizioni parziali di tale concetto, cioè tutte le equivalenze della somma (3): “p” è vera se e solo se p, dopo “p” va sostituita in ambo i membri dell’equivalenza con una proposizione arbitraria del linguaggio oggetto. Giacché tutte queste conseguenze sono formulate nel metalinguaggio, se ne conclude che ogni proposizione del linguaggio oggetto dev’essere anche una proposizione del metalinguaggio. Inoltre, il metalinguaggio deve contenere nomi per proposizioni (e altre espressioni) del linguaggio oggetto, giacché questi nomi compaiono nel primo membro delle equivalenze del tipo (3). Esso deve anche contenere alcuni altri termini che occorrono per lo studio del linguaggio oggetto, e precisamente termini che denotino certi particolari insiemi di espressioni, relazioni fra espressioni e operazioni sulle espressioni; per esempio, deve esserci la possibilità di parlare dell’insieme di tutte le proposizioni e dell’operazione di giustapposizione, mediante la quale da due espressioni se ne forma una nuova ponendo una delle due immediatamente di seguito all’altra. Infine, nel definire la verità, si vede che i termini semantici (quelli che esprimono le relazioni tra le proposizioni del linguaggio oggetto e gli oggetti a cui tali proposizioni si riferiscono) possono essere introdotti nel metalinguaggio mediante definizioni. Se ne conclude che un metalinguaggio che fornisca mezzi sufficienti a definire la verità deve essere essenzialmente piú ricco del linguaggio oggetto, esso non può coincidere né essere traducibile in quest’ultimo, giacché altrimenti ambedue risulterebbero semanticamente universali, e l’antinomia del mentitore sarebbe ricostruibile in entrambi.[…]
Se tutte le precedenti condizioni sono soddisfatte, la costruzione della desiderata definizione di verità non presenta difficoltà essenziali. Tecnicamente, tuttavia, essa è troppo complicata per essere esposta qui in dettaglio. Per ogni data proposizione del linguaggio oggetto si può facilmente formulare la corrispondente definizione parziale della forma (3). Tuttavia, giacché l’insieme di tutte le proposizioni del linguaggio oggetto è di regola infinito, mentre ogni proposizione del metalinguaggio è una successione finita di segni, non si può arrivate a una definizione generale formando semplicemente la congiunzione logica di tutte le definizioni parziali. Nondimeno, ciò che alla fine si ottiene è, in un senso intuitivo, equivalente alla immaginaria congiunzione infinita. Molto approssimativamente, si procede come segue. Dapprima si considerano le proposizioni piú semplici, che non contengono altre proposizioni come parti; per queste proposizioni si trova il modo di definire la verità direttamente (usando la stessa idea che conduce alle definizioni parziali). Poi, mediante l’uso delle regole sintattiche che riguardano la formazione di proposizioni piú complicate a partire da quelle piú semplici, si estende la definizione a proposizioni composte arbitrarie; si applica qui il metodo conosciuto in matematica come definizione per recursione. (Questa è, a dire il vero, una grossolana approssimazione del procedimento. Per ragioni tecniche il metodo di recursione si applica, in realtà, non per definire il concetto di verità, ma quello a esso collegato di soddisfazione; la verità viene poi facilmente definita in termini di soddisfazione).
Sulla base della definizione cosí costruita si può sviluppare l’intera teoria della verità. In particolare si possono derivare da essa, oltre a tutte le equivalenze della forma (3), alcune conseguenze di carattere generale, quindi il famoso principio di non contraddizione e quello del terzo escluso. Per il primo di questi due principi, non possono essere entrambe vere due proposizioni una delle quali sia la negazione dell’altra; per il secondo principio, due proposizioni siffatte non possono essere ambedue false.