La legge 162 prevede per le Regioni la possibilità di programmare e disciplinare gli interventi di sostegno per la persona con handicap grave, che si aggiungono a quelli dei servizi sociali comunali.
La legge sancisce che lo Stato dovrà suddividere fra le Regioni un fondo per finanziare gli interventi in funzione dei progetti che i singoli enti locali presentano e in riferimento al numero di disabili gravi presenti su quel territorio. Inoltre istituisce la Conferenza Nazionale sull’Handicap, che dovrà tenersi ogni tre anni, e che avrà la funzione di creare un spazio di confronto tra il governo in causa e le organizzazioni sociali che rappresentano le persone con handicap al fine di raccogliere nuove informazioni e dunque di migliorare la normativa vigente.
Grazie alla creazione di questo “spazio di dialogo”, con il passare degli anni si è costruito un quadro di norme, agevolazioni, benefici ed opportunità, in riferimento alle diverse realtà regionali e tenendo sempre un occhio alla reale quantità di finanziamenti effettivamente disponibili da investire nei vari progetti.
Rimane ancora il problema dell’effettiva possibilità per le persone con handicap di ottenere il rispetto dei diritti e dunque avere il pieno godimento dei servizi e delle diverse facilitazioni previste: la mancanza o la cattiva informazione rendono molto difficile il delicato lavoro di comprendere i bisogni e/o progettare interventi in materia di disabilità.
Nella Legge quadro sull’handicap (legge n. 104/92, art. 3, comma 3), si definisce la situazione di gravità in questo modo: Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici..
Lo stato di gravità lo troviamo all’interno della persona, connesso alla presenza di una disabilità che danneggia l’autonomia personale a tal punto da richiedere un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale: si tratta di uno stato di fatto irrevocabile, un storia scritta definitivamente che non lascia spazio ad alcuna prospettiva evolutiva e con minime possibilità educative. Il disabile grave appare come irrimediabilmente segnato dall’urgenza e dalla persistente necessità degli aiuti, dal bisogno di dipendere dagli altri, in possesso di pochissime capacità di dare.
Ma questa raffigurazione inflessibile e deterministica, come ognuno di noi del resto ha potuto constatare, è limitativa e non rispecchia la realtà. Chiunque abbia avuto modo, direttamente o indirettamente, di incontrare individui con deficit grave e anche gravissimo (sensoriale, fisico, neuropsicologico, comportamentale) pur avendo necessità di una assistenza costante e il bisogno di aiutarsi con protesi di vario genere, o imprigionati in altre limitazioni di ogni genere, muniti in genere di buona intelligenza, sono in grado di seguire con profitto l’attività scolastica. Naturalmente non possiamo dimenticare l’esistenza di soggetti che presentano condizioni di gravità e di mancanza di autonomia personale e sociale smisurati al punto tale da rendere quasi impossibile l’incontro con i normali ritmi di vita per se stessi e anche per i loro familiari. Sono soggetti imprigionati da limitazione di ogni genere, naturali, imposti dal contesto o da se stessi, obbligati a confrontarsi ogni giorno con terapie, protesi e forme alternative di comunicazione e di relazione, ma nonostante ciò non possiamo connotare una persona gravemente malata unicamente come una pura carenza o come un puro caso clinico: anche in situazioni estreme, l’autentica spinta vitale che caratterizza ogni essere vivente ci indica l’esistenza di abilità preservate e per niente deficitarie, che possono, anzi devono, essere migliorate, estese, rafforzate, sostenute e coordinate in modo tale da poter essere impiegate per supportare le altre competenze maggiormente compromesse. La pedagogia (ed aggiungerei anche le nuove frontiere della ricerca nel campo delle neuroscienze, in particolare si veda il Neurocostruttivismo della Karmiloff-Smith) ci insegna(no) che il concetto di gravità si riferisce a qualcosa di sistemico, caratterizzato dall’intersezione di diversi e variegati fattori personali, relazionali e contestuali, quindi non può essere intesa come qualcosa di meramente presente nel soggetto: sicuramente è riconducibile alla gravità della compromissione, all’età e alla capacità comunicativa-linguistica del soggetto disabile, al grado di motivazione ad apprendere, comprendere e condividere gli obiettivi educativi, ma il concetto di gravità è anche strettamente legato alla qualità e quantità, al livello di sincronismo e integrazione dei sostegni personali (familiari e sociali) e dei servizi messi a disposizione dall’ambiente, nonché alle aspettative di questo ultimo. Lo stesso Canevaro affronta la questione sottolineando che l’handicap è una caratteristica relativa e non assoluta, a differenza del deficit che in sé è assoluto, lo svantaggio derivante dall’handicap è sempre rapportato alle condizioni di vita, al contesto in cui il soggetto con deficit è situato.
La scienza medica considera un compito impossibile giungere ad una definizione unanimemente e scientificamente certa dello stato di gravità, essendo questo una risultante multidimensionale, riconducibile ad una pluralità di elementi e di parametri connessi allo stesso tempo sia al soggetto disabile che al contesto in cui è inserito, e senza dimenticare la prospettiva dinamica che caratterizza l’intero processo, le interazioni tra il soggetto (organismo) e l’ambiente (contesto).
E’ importante ricordare che, laddove nella Legge Quadro ci si confrontava con una drastica definizione di gravità riferita all’handicap, diversamente, invece, si esprime il successivo “Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap” (DPR 24 febbraio 1994), che, rispetto all’integrazione scolastica, definisce la diagnosi funzionale come un prodotto non solo di elementi clinici ma anche di fattori psicosociali. I dati clinici li otteniamo tramite la visita medica diretta del disabile e attraverso l’acquisizione della documentazione medica già esistente, le informazioni psico-sociali invece ci vengono date da una relazione dettagliata in cui sono compresi: i dati anagrafici, le caratteristiche del nucleo familiare: composizione, stato di salute dei membri, tipo di lavoro svolto, contesto ambientale, ecc. Le recenti modifiche alla Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute (ICF) redatto dall’OMS, introduce un nuovo modello interpretativo delle disabilità, con delle ricadute significative anche in riferimento agli stati di gravità. Tenendo fermo che il focus tematico degli esperti dell’OMS è la “condizione di salute” nelle differenti situazioni di vita e a fronte delle varie circostanze ambientali, la disabilità rappresenta, tuttavia, un sottoinsieme della “salute”, e cioè il “particolare” creato dell’interazione tra caratteristiche di salute e fattori contestuali fisici e sociali; come tale, può interessare qualunque persona in un particolare momento della sua esistenza, più o meno continuativamente. Gli esperti dell’OMS ricordano che i disabili non devono essere ridotti o contraddistinti esclusivamente nei termini delle loro gravi menomazioni, difficoltà nelle attività o restrizioni nella partecipazione alla vita sociale, il nuovo sistema di classificazione ci presenta le varie categorie diagnostiche in modo neutrale. “Gli attributi negativi di una condizione di salute e il modo in cui le altre persone vi reagiscono sono indipendenti dai termini usati per la definizione […] Il problema è principalmente di atteggiamenti degli altri individui e della società verso la disabilità”. La condizione di gravità deve essere una sfida per tutti, certo, ma non possiamo accettare di pensare che le difficoltà dei disabili gravi siano riducibili, dunque, ad una mera questione terminologica: l’esperienza “tragica” di una vita segnata da ridotti margini di autonomia, attività e partecipazione ci dice qualcosa di un vissuto inalienabile per il soggetto che ne è protagonista e per i suoi familiari che gli stanno vicino. Unicum irripetibile, il disabile, per quanto intrappolato in confini spazio-temporali angusti, partecipa della dignità dell’essere persona, dotato di potenziale educabile e rieducabile anche se non “normalizzabile” (termine che in questo contesto va inteso in senso statistico). Ogni essere umano è capace di sviluppo, di cambiare nonostante le limitazioni personali e sociali, ma è necessario superare gli orizzonti in cui i concetti di crescita, apprendimento, miglioramento sono tradizionalmente concepiti. Coraggio e fiducia devono essere le parole d’ordine non solo per il soggetto disabile, ma per tutti: genitori, più da vicino investiti, parenti, amici, specialisti, professionisti che incontrano la sua storia, il cittadino qualunque che condivide una nuova atmosfera culturale. Tutti dovranno accettare l’incontro/confrontro col “impossibile”, inteso come componente consustanziale della condizione umana. Nel “limite” incontriamo contemporaneamente i sentimenti del coraggio e del rischio ma anche quello della rassegnazione e della rinuncia, dell’assenza di speranza e dell’illusione negata: messaggi apparentemente contradditori. Riconoscere ed accettare il limite, attraversare la pena mantenendo la speranza, offrire relazioni di aiuto, chiedere e offrire sostegni concreti a chi ci sta accanto e soffre, concretizzare questi atteggiamenti in un realistico progetto di vita da condividere con gli altri, ecco lo scopo fondamentale del vivere sociale: aiutare la vita in tutti, ma di più in coloro che sono costretti nel vivere la massima difficoltà. Allestire o consolidare servizi comunitari formali ed informali, armonizzarli in rete, stimolare nuove risorse, offrire supporti personali e materiali, tenendo sullo sfondo l’idea di soggetto disabile e della sua famiglia come protagonisti attivi dell’intervento . Non è pensabile che lo spazio di vita del disabile in situazione di gravità e della sua famiglia, sia completamente esautorato dalle esperienze di carattere sanitario e terapeutico caratterizzati per giunta da lunghi intervalli di solitudine e con ridottissimi margini di normalità e assenza assoluta di momenti di ri-creazione distensiva. Basti pensare a come oggi si tende a rendere tutto assimilabile al concetto di “terapia”: ippo-terapia, musico-terapia, teatro-terapia, pet-therapy, ecc.. La condizione di gravità deve essere inserita in un circuito sobrio e leale di relativa normalità, che favorisca l’accettazione della situazione, per quanto difficile essa sia, e dia una mano per il raggiungimento un certo equilibrio esistenziale.