L’altro istituzionale

Breve ricostruzione storica

Dopo più di cinquanta anni di storia, la comunità terapeutica, è di nuovo oggi oggetto di studio nella clinica. L’irrobustimento della sua esperienza, la ricerca di una continuità del suo metodo tra le diversificate esperienze esistenti, la redazione dei primi bilanci sistematici, sono forieri, per essa, di una (Badaracco, J.E.G., Garcia, E., 1989) nuova epoca, diversa dallo sperimentalismo pionieristico d’avanguardia e delle utopie antisegregative. È  in corso un’irrigidimento dei suoi metodi e delle sue regole, in visione di una valutazione più obiettiva, di un contenimento dei costi economici, ed una sempre maggiore consapevolezza de suoi risultati terapeutici (Carli, R., 1992).

Nell’attualità le comunità istituiscono i loro percorsi di trattamento con modalità diverse da quelle dell’epoca mitica delle prime sperimentazioni. Forse la prima esperienza indicativa al riguardo, sul piano cronologico, si è prodotta nel quadro della Guerra Civile di Spagna, a sud, presso la comunità di Almovar del Campo, ed ha visto come giovane protagonista, tra il ’38 e il ’39, lo psichiatra catalano Francois Tosquelles, capo dei servizi psichiatrici dell’Armata della Repubblica, che in seguito alla vittoria del franchismo fuggirà in Francia per diventare uno dei massimi esponenti della Psychoterapie institutionelle(Tosquelles, F., 1984; Cosenza, D., 2002); ma l’esperienza riconosciuta come punto di partenza del movimento delle comunità terapeutiche la rintracciamo negli sforzi di Bion e Rickman a Northfield, in Inghilterra. L’esperimento di Northfield del 1943, portato avanti coraggiosamente da Bion nel quadro dei servizi di psichiatria dell’esercito britannico nel cuore della Seconda Guerra Mondiale, è un esempio paradigmatico di questo duplice tentativo: trattare la nevrosi dei soldati al fronte rispondendo ad essa non più solo col linguaggio del comando superegoico e della disciplina, propri dell’esercito, ma includendo anche lo spazio di un dispiegamento della parola dei soggetti rispetto alle difficoltà che incontrano all’interno dell’esperienza del gruppo e della riunione (Cosenza D., 2002). L’esperimento in qualche modo getta le basi tanto della psicoterapia di gruppo, quanto del trattamento nell’istituzione comunitaria, che nel gruppo trova il suo dispositivo primario: attraverso la mediazione della parola libera all’interno del gruppo, la passività e la sofferenza dei soggetti rispetto alla richiesta che proviene loro dall’Altro istituzionale, può essere trattata, lavorata, “soggettivata”, e dunque modificarsi in qualcosa di vitale, che torna a dare movimento al soggetto rispetto ai compiti a cui è chiamato. Bion interruppe prematuramente tale sperimentazione e l’allontanamento da Northfield da parte dei vertici militari, mette in evidenza le difficoltà di un’istituzione totalizzante come quella dell’esercito a tollerare al suo interno una “riforma nel rapporto del soggetto sofferente con l’altro istituzionale”, che lasci appunto al primo, uno spazio di parola soggettivo per elaborare le proprie difficoltà. Tuttavia l’esperienza di Northfield ha avuto in sé qualcosa d’inaugurale, forse d’irreversibile, che ha dischiuso un campo nuovo d’esperienza a livello clinico, dispiegando la strada a quella che Tom Main, che rilancerà l’esperienza di Bion in tempo di pace, battezzerà nel ’46 con il nome di “comunità terapeutica” (Main, T., 1946).

In tale scritto inaugurale, dal titolo “L’ospedale come istituzione terapeutica”, Main definisce il concetto fondamentale che sta alla base del progetto di comunità terapeutica: è un tentativo di riforma interna all’altro istituzionale che si occupa della cura del malato psichico, che trasforma il rapporto tra soggetto bisognoso di cura e istituzione che lo accoglie per curarlo. L’ospedale cessa di essere concepito come istituzione “totale” in cui il malato trova un rifugio dal mondo, ponendosi nella posizione passiva d’oggetto delle cure mediche. L’istituzione ospedaliera si trasforma in una comunità che accoglie il malato come soggetto che partecipa della propria cura così come della vita dell’istituzione, che anzi fa della sua integrazione nel vivo della vita istituzionale il motore stesso dell’atto terapeutico (Ibidem). L’ospedale diventa l’istituzionale che ha come obbiettivo principe il reinserimento del malato nella vita sociale esterna all’istituzione: la sperimentazione effettuata a Northfield aveva l’obiettivo di utilizzare l’ospedale non come un’organizzazione condotta da medici che focalizzano il loro lavoro fondamentalmente su questioni tecnico-operative, ma come una comunità il cui scopo immediato è la più elevata partecipazione possibile di tutti i suoi membri alla vita quotidiana (Ibidem). Tale modello introduce una certa discontinuità rispetto al discorso istituzionale di cura, il malato psichico che soffre di disturbi nelle relazioni con gli altri, non può essere trattato da un’istituzione che lo pone in posizione d’oggetto passivo del sapere medico, come avviene per la cura di una malattia organica, ma necessita di incontrare un luogo di vita entro cui poter “riarticolare” il proprio desiderio, nella correlazione che vige tra regolamentazione istituzionale e iniziativa del soggetto. L’istituzione per malati psichici può divenire terapeutica pertanto, solo a condizione di de-totalizzarsi, di fare spazio alla soggettività del malato nel contesto di vita relazionale dell’istituzione, perché sia lui stesso a produrre, nell’atmosfera aperta e insieme regolata dell’istituzione, il suo modo particolare di ricostruzione di un rapporto più sostenibile con l’altro. De-totalizzarsi significa al contempo, per l’istituzione, assumere il fatto che v’è sempre qualcosa di sé che sfugge, che il suo sapere non è completo, compiuto, ma in grado sempre di mantenere un punto vuoto che si sottrae alla possibilità di essere compreso, un luogo di non sapere, garante di quella vitalità necessaria per un processo di elaborazione continua.

Main, sottolineando l’ambiguità del termine “comunità terapeutica”, ne ha fatto riemergere la matrice freudiana:  “Il termine “comunità terapeutica” è usato così variamente che ha quasi perso, oggi, ogni significato. Col metodo delle libere associazioni Freud pose in essere una svolta decisiva, che aprì una nuova strada nello studio dell’esperienza umana, che venne affrontata nella sua globalità e non in parti separate. Così, la cura dei gruppi mediante la libera discussione è un ampliamento di quella svolta. L’idea di comunità terapeutica rappresenta un’allargamento di quella innovazione freudiana, proprio perché essa si fonda sulla analisi del materiale inconscio. Il suo elemento caratteristico non è un tipo particolare di struttura sociale, ma una cultura di ricerca. (Main, T., 1981).

Un cattivo incontro con l’altro istituzionale

Se durante la guerra, l’esperimento comunitario era stato un modo di arginare gli effetti paralizzanti prodotti dalla minaccia esterna, costituita dal nemico, sulla nevrosi dei soldati, in tempo di pace la comunità terapeutica diviene un luogo d’accoglimento e di possibile trattamento di una ampia e diversificata area di disagi, in cui a essere in gioco è l’impossibilità del soggetto a trovare una sua collocazione all’interno del discorso familiare e sociale (Cosenza D., 2002). La comunità si presenta come alternativa rispetto al luogo di provenienza del soggetto, chiunque vi entra, a partire da una propria decisione o da un assenso dato ad una proposta d’inserimento, lo fa a partire da una supposizione fondamentale: che in essa sia possibile incontrare un altro “altro”, un luogo in cui abitare dotato di leggi capaci di pacificare, di mettere ordine, di offrire al soggetto sofferente qualcosa che non ha potuto trovare nel campo familiare, nelle istituzioni sociali, o in altri luoghi terapeutici. La comunità incarna per il soggetto che vi ricorre, un luogo di supplenza e di riparazione rispetto ad un cattivo incontro con l’altro (Correale, A., 1988) da cui sono stati, ad un qualche livello ed in forme diverse, “maltrattati”, venendo così a loro mancare qualcosa di fondamentale per loro costituzione soggettiva. Si tratta di situazioni limite, di casi gravi rispetto ai quali l’intrattabilità si è manifestata oltre che nella difficoltà a stare nel legame familiare e sociale, anche nell’estrema fragilità ed irregolarità, di ogni possibile prospettiva di trattamento riconducibile ad un setting di tipo psicoterapeutico, dove il transfert sul terapeuta, la regolarità che organizza gli incontri (l’orario, il luogo, la centralità della parola come modo di espressione) non riescono nella loro funzione contenitiva e curativa del disordine mentale. La comunità assicura in questi casi, un luogo di ascolto e di elaborazione simbolica, uno spazio reale ed un tetto sotto cui abitare, una quotidianità condivisa ed un insieme di regole di convivenza, facendosi carico del contenimento di quella spinta autodistruttiva che nessun dispositivo terapeutico esclusivamente basato sulla parola è in grado di poter offrire.

Le fluttuazioni reali, l’esperienza quotidiana e concreta della comunità, aumentano il rischio di posizionarsi, in rapporto agli accadimenti, entro un ampio spettro di risposte immaginarie che coinvolgono le azioni ed i discorsi degli operatori, oltre che dei pazienti: da un lato possiamo assistere ad un processo di regressione familiaristica, in cui gli operatori e i pazienti, contrassegnano in modo proiettivo la distanza rispetto a quanto è fuori dalla comunità, rischiando di ricadere nel mito narcisistico dell’isola felice circondata da un oceano eternamente in burrasca, e dall’altro lato in un processo di distanziamento fobico, difensivo, messo in atto dagli operatori rispetto alla domanda pervasiva dei pazienti (Cosenza D., 2002). La specificità della comunità terapeutica è rappresentanta dalla sua capacità di accogliere al proprio interno quelle oscillazioni all’interno del gruppo pazienti-operatori, facendone la materia di un lavoro di elaborazione permanente, nei momenti della riunione comunitaria, nei gruppi terapeutici, nelle riunioni perioriche dell’equipe degli operatori, negli incontri con un supervisore esterno (Ibidem).

Al centro dell’avventura comunitaria è importante garantire l’incontro con un luogo capace di funzionare come contenitore e bonificatore della distruttività del soggetto, supplendo così ad una carenza nel lavoro di reverie materna (Cosenza, D., 2000). Sovente per definire lo specifico della comunità, si usa il concetto di luogo transizionale, nel duplice significato di luogo di passaggio, temporaneo, che consente al soggetto il ritorno, più o meno integrale, all’interno della vita sociale con una propria progettualità esistenziale, prima insostenibile, ed al contempo, nel senso di area simbolica entro cui poter costruire o completare un processo di individuazione di sé e di separazione dall’altro materno, che nella storia individuale di quel soggetto era stato interrotto.

Transfert istituzionale e lavoro iniziale sulla domanda

Ogni ingresso di un nuovo paziente è una scommessa, tanto per il soggetto quanto per la comunità. Se la domanda del soggetto s’incontra con il “supposto saper rispondere” da parte dell’istituzione, si realizza il transfert istituzionale, diverso dal transfert che si struttura in una analisi o in una psicoterapia classica: il polo cardinale del transfert, per il soggetto, è incarnato spesso prima ancora che da un particolare soggetto curante, da un luogo in cui il soggetto suppone di poter stare e di potersi curare. Quando nel paziente si attiva questo particolare tipo di transfert, il processo terapeutico interno al dispositivo comunitario può effettivamente considerarsi iniziato, anche se non è garanzia di un buon esito della cura (Cosenza D., 2002). In alcuni casi, l’attivarsi del transfert istituzionale non si realizza mai, ed il paziente, anche se varca la soglia dell’istituzione, non vi entra veramente, vi è entrato fisicamente sotto la spinta della domanda dell’altro (la famiglia, i Servizi, il medico di base, lo psicoterapeuta), ma non è riuscito a “soggettivizzare”, anche solo parzialmente,  tale ingresso, a condividerlo.

Chi domanda l’entrata in comunità del paziente? Con Lacan potremmo dire: qual è il punto di enunciazione effettivo di tale domanda? Che cosa chiede tale domanda? L’accoglimento e il lavoro articolato a partire dalla domanda d’entrata in comunità produce implicitamente una funzione di filtro selettivo, un lavoro di valutazione clinica da parte degli operatori sull’opportunità dell’entrata all’interno dell’istituzione comunitaria (Di Ciaccia, A., 2000). Quando viene meno tale funzione clinica di filtro, l’entrata diviene un evento che “passivizza” tanto il paziente quanto dall’istituzione e che abbassa il profilo della presa in carico ad operazione di mera accoglienza, se non, nella peggiore delle ipotesi, di semplice “parcheggio”.

Dopo i colloqui preliminari con i familiari, si continua a lavorare a partire dalla domanda d’ingresso, per il tempo necessario alla nascita del soggetto: tale domanda dovrà essere accolta in un luogo dove poter dire “sì” (Ibidem). Questo passaggio segna la differenza fondamentale tra un entrata psichica nella comunità ed un semplice ingresso fisico dalla porta della comunità (Ibidem).

Dovrà essere lui, il paziente, il soggetto che domanda, a prendere la decisione di stare in comunità, individuandola come luogo in grado di trattare la propria sofferenza.

Nella psicosi l”entrata psichica” in comunità si realizza nel momento in cui il soggetto, nelle istituzione, è accolto in un luogo non persecutorio, regolato, ma non Super-egoico, entro cui potersi ritagliare e costruire una sua nicchia identitaria, più sostenibile soggettivamente e socialmente (Lacan, J., 1966).

Antonello Correale introduce il concetto di “lutto preliminare”, inteso come lavoro psichico necessario all’ingresso effettivo del paziente nel campo istituzionale, sostenendo che esso è una complessa operazione affettiva, che il paziente deve operare in se stesso, al momento di entrare per la prima volta in comunità. Oltre alla vita quotidiana, cambierà anche l’ambiente affettivo, lo spazio e la scansione temporale: l’istituzione al posto della casa, gli operatori al posto dei familiari.

Quando non si realizza una vera e propria entrata psichica nella comunità si attivano meccanismi di difesa regressivi ed ecco che con la fuga prematura dalla comunità il soggetto continua nella sua soddisfazione masochistica: un godimento “incistatosi” nell’intreccio del legame familiare, che egli tende a riprodurre in ogni luogo, e a cui il paziente non riesce affatto a rinunciare.

La comunità sarà in grado di accogliere un soggetto psicotico se sarà in grado di accogliere il suo altro persecutorio, incarnando, seppur sempre nella logica del funzionamento istituzionale, un altro tollerabile, né terrifico, né abbandonico, ma regolato: al servizio del soggetto psicotico, non invasivo ma sempre pronto all’ascolto della parola e delle azioni del paziente (Lacan, J., 1966).

La funzione dell’equipe

Il punto fondamentale per la pianificazione del trattamento terapeutico è dato dalla capacità degli operatori di lavorare insieme, seguendo un orientamento comune nella cura, che emerge dalla lettura collettiva degli avvenimenti istituzionali che si producono nelle riunioni periodiche d’equipe. Tale lettura condivisa fa sì che le azioni degli operatori, pur nella loro particolarità/singolarità, trovino il loro punto di orientamento, che fa dell’atto di ciascuno al contempo un atto soggettivo dell’operatore e insieme un modo di incarnare nella pratica le indicazioni emerse dalla lettura collettiva. La giusta integrazione tra l’orientamento istituzionale prodotto dall’equipe e l’intervento particolare degli operatori, la qualità di tale dialettica, risulta essenziale rispetto agli effetti terapeutici che si producono sull’atmosfera e sul funzionamento istituzionale: sullo stato di ogni singolo soggetto che vive in comunità, operatore o paziente che sia. Fisiologicamente si alternano momenti in cui l’equipe riesce a funzionare come principio “orientatore” degli atti dei singoli operatori che la costituiscono, e momenti in cui invece non riesce a configurarsi come insieme orientato, avremo in questo caso degli effetti di frammentazione nella loro pratica che si riverberano inevitabilmente sul gruppo dei pazienti, amplificando la dimensione immaginaria e regressiva interna alla dinamica di gruppo. Se l’equipe, in quanto insieme in cui gli operatori si riconoscono, funziona come istanza terza che riduce la frammentazione interna al gruppo dei pazienti, è possibile assistere ad una sorta di  risanamento simbolico delle dinamiche distruttive/autodistruttive, riuscendo a garantire nuovi spazi di soggettività. Dall’agito, molto frequente nei minori psicotici, si sostituisce la messa in parola, nei gruppi, nelle riunioni, nei colloqui individuali, che vale come risposta a quella spinta fantasmatica tipica della psicopatologia psicotica. Il vuoto di simbolizzazione che può insinuarsi nell’equipe degli operatori, rischia di deformare la lettura stessa degli avvenimenti istituzionali aprendo un varco alle dinamiche frammentarie e alimentando tra gli operatori il senso di angoscia e di impotenza, di aggressività e sfiducia reciproca, nella sensazione che si sia perduta la rotta nella direzione della cura. << E’ in questi momenti che più forte diventa la spinta dei singoli operatori ad un intervento parcellizzato sui pazienti, svincolato dal riferimento ad un orientamento comune, che perlopiù alimenta tra gli operatori il senso di sfiducia reciproca e di impotenza, aprendo il campo a dinamiche speculari di tipo fantasmatico tra gli operatori ed i pazienti, ed è proprio in questo genere di configurazioni che il narcisismo dell’operatore rischia di trasformarsi in un vero e proprio “delirio” in rapporto al paziente: ossia rischia di concludere arbitrariamente che potrebbe essere lui, indipendentemente dall’istituzione e dal lavoro dei suoi colleghi, a poterlo curare>> (Cosenza D., 2002).

Racamier definisce il concetto di seduzione narcisistica, mettendo in risalto la dinamica che spinge l’operatore in una relazione di tipo speculare col paziente, animata da una fantasia di onnipotenza terapeutica, che di fatto si rivela controproducente per il trattamento comunitario che l’equipe ha predisposto per quel soggetto (Racamier, P.C., 1993). La direzione della cura va ripristinata ogni volta ricollocando l’equipe e la sua lettura collettiva degli accadimenti proprio nell’ambito dell’istituzione stessa, come luogo simbolico del transfert di lavoro. Il momento chiave di ricomposizione e di orientamento del lavoro di ciascuno assicura che l’atto del singolo operatore possa assumere per il paziente un valore simbolico, istituzionale, non più riducibile alla dinamica immaginaria a due, curante/curato.

Se l’equipe diventa lo spazio simbolico del transfert di lavoro, ci saranno degli effetti evidenti dal lato del gruppo dei pazienti: la comunità può funzionare come altro retto da una legge non sregolata né persecutoria, se gli operatori riusciranno a fare spazio al soggetto, lavorando unitariamente, preservando la funzione simbolica del gruppo dalle dinamiche di frammentazione tipiche della psicosi. L’equipe è il vero soggetto curante che orienta il lavoro clinico, dotata di una sua logica unitaria di funzionamento: “clinique à plusieurs”(Di Ciaccia, A., 2000).

Nella “clinique à plusieurs”, l’equipe si rivolge sempre al paziente come soggetto affinché siano le sue parole ed i suo atti a fornire lo spunto agli operatori per accompagnare l’andamento del suo singolare percorso terapeutico. L’equipe stessa deve farsi parte diligente per un’elaborazione collettiva permanente rispetto al “non- sapere” che la riguarda e che produce i suoi effetti nella vita dell’istituzione e nel trattamento dei pazienti. L’equipe è in grado di leggere il caso clinico agganciandolo all’interpretazione del funzionamento generale dell’istituzione, come istanza orientatrice del trattamento (Ibidem).

La lettura degli eventi svolto dagli operatori rende possibile il trattamento della soggettività del paziente in comunità, l’alternativa sarebbe il mero “rimodellamento identificatorio”, l’adattamento mimetico a forme di condotta socialmente più sostenibili, ma non ci sarà spazio per il soggetto (Main, T., 1946; Main, T., 1981). Nella “clinique à plusieurs” l’equipe deve ogni volta, dopo ogni crisi essere rifondata, come luogo di transfert e di lavoro da parte degli operatori che la costituiscono, perché possa continuamente funzionare per i pazienti come polo cardinale del transfert in istituzione, tutelando così gli operatori (e con loro naturalmente i pazienti) dalle dinamiche transferali a due, troppo incandescenti, non regolate da un principio terzo orientante, che rischiano di paralizzare il corso del trattamento. Il funzionamento del transfert diviene veramente efficace per la cura, se si aiuta il paziente a suddividerlo in modo plurale tra i diversi operatori, annodandolo attorno all’equipe in quanto unità e istanza cardine della direzione del trattamento. Se ciò non dovesse accadere, nei momenti di crisi e di stagnazione, il transfert dei pazienti nei confronti degli operatori, si trasformerà da “plurale” in “frammentato e disperso”, alimentando nella vita della comunità dinamiche di tipo immaginario e regressivo tra gli operatori: il campo creato dall’equipe “ripresentificherà” al soggetto il fantasma di quell’altro sregolato incarnato dalla posizione dei genitori nel discorso familiare di provenienza, e ciò nella maggior parte dei casi sospingerà il paziente verso l’interruzione del trattamento in istituzione e l’abbandono della comunità.

L’altro istituzionale regolato

L’azione della parola e del simbolo nella vita comunitaria sottrae alla malattia una quota del “godimento mortifero” tipico delle gravi psicosi il quale non si presenta più come una pulsione silenziosa, come un attaccamento muto e assoluto alla propria sofferenza, ma tende a configurarsi come un godimento parziale, svuotato, che apre al soggetto lo spazio per un’altra forma possibile di soddisfazione che passa attraverso il medium della domanda. La soddisfazione che passa dalla parola, entra nel discorso, con gli altri e si inserisce nel corpus delle leggi articolate dall’altro istituzionale, entrando con esso in una dialettica che perde una parte della sua assolutezza mortifera aprendo nel soggetto uno spazio di enigma, sospingendo il soggetto verso una riforma del suo modo di soddisfarsi, che punta ad alleggerire l’assolutismo implacabile che lo lega al suo patire, per renderlo disponibile a forme di soddisfazione più dialettiche, legate al rapporto con l’Altro (Lacan, J., 1969-1970). Grazie alla “clinique à plusieurs”, il lavoro istituzionale diventa un laboratorio di vita attraverso il quale il soggetto può ristabilire un contatto con un altro diverso da quello persecutorio, sregolato, irresponsabile o invasivo esperito durante la propria esistenza, il luogo istituzionale diventa luogo di ricomposizione di una relazione più sopportabile con l’altro, che riapre al soggetto la possibilità di una vita mossa dal desiderio. Ciò si rende possibile se si riesce a creare un luogo reale di regolazione e d’interferenza sul “godimento mortifero”, condizione necessaria per il suo funzionamento come luogo simbolico di dispiegamento della parola del soggetto. Per poter parlare di quanto “lo riguarda”, in un contesto gruppale, il minore psicotico ha bisogno di qualcosa di più di un semplice dispositivo psicoterapeutico di gruppo: gli servono i muri della comunità, la sua stanza, il bagno, le regole dell’istituzione, il calendario della giornata e della settimana, la presenza e l’assenza degli operatori di giorno e di notte, un direttore che interviene di persona nei momenti critici del suo percorso, un lavoro continuo da parte degli operatori con i familiari del paziente e con le loro oscillazioni rispetto alla sua permanenza all’interno dell’istituzione, uno scambio continuo con gli operatori dei Servizi di provenienza del paziente (Carli, R., 1992).

Il lavoro potrà articolarsi sia con finalità più mirata a trattare la dinamica interna al gruppo dei pazienti, sia in riunioni con un obiettivo più pragmatico-organizzativo della vita quotidiana e coinvolgente per i pazienti e gli operatori; ma sarà caratterizzato anche da momenti nei quali le forme della simbolizzazione passano attraverso altre modalità rappresentative: attività di messa in scena (psicodramma), o in ateliers e laboratori centrati spesso su di una pratica che passa attraverso un fare manuale o corporeo, e che mette quindi al centro il corpo come veicolo di una produzione reale dotata di valore simbolico per il soggetto e per il gruppo.

Come ricorda Cosenza, <<la centralità di tali luoghi, è data dal loro funzionare come momenti di messa in ordine e di ricomposizione del complesso di esperienze che il soggetto sperimenta all’interno e all’esterno della comunità: funzionano come momenti di elaborazione simbolica della sua esperienza reale, delle sue azioni, degli stati emotivi, delle situazioni condivise con gli altri pazienti, delle trasgressioni compiute rispetto alle regole istituzionali, nel quadro della dinamica di gruppo. Tuttavia, l’efficacia di tali momenti diviene possibile, in comunità, soltanto se la vita quotidiana del soggetto in istituzione, è articolata a priori su di un dispositivo regolato, su di una simbolizzazione primaria che struttura l’esperienza di chi vi vive alla luce di scansioni temporali e rituali predefinite, predisposte dall’istituzione per i pazienti, che ci offrono il quadro del suo funzionamento (Cosenza, D., 2002)>>. Tale simbolizzazione primaria costituisce l’architrave simbolica dell’istituzione comunitaria, il sistema delle sue regole di base, e l’entrata effettiva del paziente in comunità passa anzitutto attraverso l’assunzione di tale simbolizzazione primaria come di una legge che fa da argine al suo godimento autodistruttivo, e che permette al soggetto di portare avanti la propria esperienza comunitaria rendendo efficace la sua partecipazione anche nei dispositivi simbolici definiti (Ibidem).

In questo senso, Kaneklin  evidenzia la centralità dell’esperienza comunitaria come luogo d’azione e di inter-azione (Carli, R., 1992) prima ancora che come luogo di parola, come campo di azioni significative anche se non verbalizzate, tanto da parte dei pazienti quanto da parte degli operatori, non sarebbe possibile, in assenza di tale simbolizzazione primaria che funge da “quadro grammaticale” affinché delle azioni e degli eventi in comunità valgano come eventi significativi (anche se muti) e non come mere contingenze insensate per coloro che vivono all’interno del gruppo comunitario, Racamier, per esempio, a tal proposto parla di “azione parlante” quando sviluppa la sua teoria sul trattamento istituzionale della psicosi (Ferruta, A.,  Foresti, G., Pedriali, E., Vigorelli, M., 1988). Con Lacan l’azione assume valore nel campo di un discorso, il quale, a differenza del linguaggio, è perlopiù “senza parole” (Lacan, J., 1969-1970), muto, in atto, l’azione opera quella che Michel Foucault chiamerebbe una “disciplina dei corpi”, un orientamento degli enunciati, un particolare funzionamento dell’’economia libidica (Foucault, M., 1970-1984). In istituzione l’azione diventa centrale rispetto alla parola. L’azione e il soggetto che la compie si dovranno situare nel campo del “discorso istituzionale”, la regola della partecipazione collettiva ai momenti di lavoro durante gli atelier, per esempio, darà significato all’eventuale assenza di un paziente che non ha potuto partecipare: tale sua assenza diventa qualcosa di significativo all’interno del discorso istituzionale. Ecco come un’azione può parlare, diventare significativa, assumere un valore particolare, sorprendere, rispondere anche ad una domanda silenziosa.

La clinique à plusieurs di orientamento analitico ha la funzione di creare un luogo terapeutico in cui si fa attenzione, nei vari momenti di vita nel contesto istituzionale, alla soggettività che si prova ad aprirsi un varco, tra le maglie della sua identificazione al sintomo. Affinché si possa arrivare a mostrare qualcosa del proprio desiderio occorre che l’istituzione renda ciò possibile costruendo la regolamentazione di base che si configura in modo tale da non saturare le risposte del paziente entro lo schema rigido adeguazione/trasgressione. Intrecciare il rapporto alla regola, in una modalità insatura, significa non fare della regola un puro standard a cui il paziente deve dire semplicemente si o no, ma piuttosto dovrà lasciare al soggetto ed all’equipe stessa il tempo necessario per comprendere la specifica modalità, di quel particolare soggetto, di rapportarsi ad una legge imposta da un Altro Istituzionale (Donaggio, A., Egge, M.G., Purgato, N., Cucchini, A., Galleani, N., 2006).

L’equipe ha il compito ogni volta di smarcarsi dalla posizione dell’Altro fantasmatico o persecutore, garantendo in questo modo al soggetto la possibilità di fare esperienza di un altro per lui più sostenibile, disposto a fare spazio alla sua parola. Seguendo questa logica, non è la programmazione delle attività costruita per il soggetto, ma è il soggetto stesso che attraverso i suoi atti e le sue parole, volta per volta che dovrà suggerire e dettare all’equipe il proprio programma di cura.

L’equipe, che inizialmente funziona per il paziente come soggetto supposto sapere, agendo a partire da un non sapere sul soggetto, orientando il soggetto a dire ciò che gli è adeguato e ciò che non può sostenere, accompagnerà il soggetto nella produzione del “proprio” sapere, nella costruzione della “sua” storia, facendosi trovare sempre pronta a sostenerlo nei momenti in cui egli prova a dare al suo dire uno sbocco operativo, decidendo di iniziare a fare o di riprendere qualcosa che semmai aveva interrotto e che grazie al lavoro terapeutico è giunto a ritenere  di nuovo importante per lui.

Il principio di regolamentazione incompleta, in cui l’altro curante non satura, né standardizza una volta per tutte il percorso terapeutico del soggetto, che impedisce agli operatori di produrre atti esclusivamente sulla base di un sapere prestabilito: può lasciare spazio all’emergere dell’effetto di soggetto, ed alla costruzione ad opera del soggetto di una regola più adeguata al suo modo particolare di essere. L’alternativa sarebbe un altro curante fondato su un sapere “anticipatorio” dove il lavoro non auspicherebbe più l’effetto di soggetto, ma l’identificazione del paziente all’ideale di guarigione trasmesso dall’equipe curante, in poche parole il paziente si adeguerebbe ad un ideale che gli permetta un rafforzamento ortopedico della sua identità ed una normalizzazione del suo comportamento disturbato e del suo pensiero distorto ed erroneo.

La separazione dalla comunità

Il modo in cui un soggetto compie la sua entrata in comunità getta le basi della sua modalità di uscita (Racamier, P.C., 1981). E’ essenziale situare il momento nel quale la partenza si produce, rileggendola come esito di un processo complessivo, infatti, il tempo della partenza può assumere un valore alquanto diverso: può restituire il valore per il soggetto di una non-entrata, di una interruzione, o di un percorso datato che volge a conclusione. E’ utile riferirci, in questo ragionamento, alle scansioni del tempo logico con cui Lacan ha articolato il rapporto del soggetto con l’altro nel quadro della relazione intersoggettiva (Lacan, J., 1966). Una partenza dalla comunità che si configura come effetto necessario di una non entrata, è quanto sperimentiamo in tutti quegli ingressi in comunità che falliscono nella fase iniziale proprio perché non riescono a produrre nel soggetto una elaborazione simbolica anche minima della propria domanda di entrata.

L’entrata soggettiva in comunità favorisce la realizzazione del processo di storicizzazione simbolica del proprio problema nel quadro del discorso istituzionale. In questo modo potrà prodursi una modalità di partenza che può essere definita nei termini di una interruzione, che spesso è legata a fattori esterni all’istituzione, a volte a questioni burocratiche collegate ai tempi di pagamento delle rette da parte dei Servizi, che stabiliscono dei termini che spesso non si accordano con i tempi di elaborazione soggettiva dell’uscita dalla comunità. Una tipica uscita in questa fase è osservabile quanto il paziente interrompe il trattamento comunitario alla luce di una riacquistata capacità di controllo sul proprio sintomo, ma anticipatamente rispetto ad una corretta elaborazione della separazione dalla comunità, evitando così il momento simbolico di elaborazione del lutto. Naturalmente nei pazienti psicotici è perlopiù improbabile una vera simbolizzazione dell’uscita, ed il problema maggiore quando decidono di lasciare la comunità in un tempo che per l’equipe è considerato prematuro, diventa fondamentale permettergli di uscire, rendendogli possibile una continuazione del lavoro con altri mezzi, in un punto della rete di assistenza fuori dalla comunità, evitandogli un salto nel vuoto che può riprodurre le condizioni di uno scatenamento psicotico.

Vi sono uscite per le quali invece è forse più preciso parlare di separazione e non solo di partenza dall’istituzione. Si tratta di uscite nelle quali il paziente ha storicizzato il proprio percorso in comunità nel quadro della propria esistenza, giungendo a riconoscere, nel periodo comunitario, l’esperienza di un incontro che ha lasciato il segno su di lui, sul suo modo di soddisfarsi, sul suo dare una direzione e un valore alla sua vita. L’uscita conclusiva dalla comunità, nel senso di vera e propria separazione, non molto frequente in realtà e questo va sottolineato con forza, avviene con modalità tutto altro che standard: lascia sempre nel soggetto il marchio di un incontro incancellabile che lo spazio comunitario gli ha reso possibile, quello appunto di se stesso con un altro capace di restituirgli la dignità ed il diritto ad una soddisfazione non autodistruttiva, annodata al suo essere desiderante (Cosenza D., 2002).

Bibliografia

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