Il modello organizzativo che privilegia la relazione terapeutica duale, come ci indica ancora Marta Vigorelli, con alcune modificazioni metodologiche specifiche per le psicosi, in un contesto istituzionale altamente protetto, è definito modello bifocale. Lo incontriamo per la prima volta nella clinica privata di Chestnut Lodge, vicino Washington, nel periodo in cui negli USA le Assicurazioni finanziavano anche trattamenti a lungo termine di tipo psicoanalitico. I pazienti ammessi (psicotici, borderlines o con gravi disturbi del carattere), dopo una fase preliminare di osservazione diagnostica – per lo più senza farmaci – venivano trattati mediante psicoterapia psicoanalitica intensiva strutturata in questo modo: quattro sedute, regolarità spazio-temporale, colloquio riservato e astinenza. Per un periodo iniziale, abbastanza lungo, i pazienti rimangono ricoverati all’interno della clinica per poi passare all’esterno, alloggiando in piccoli appartamenti e lavorando, restando sempre in contatto con l’ospedale per la psicoterapia individuale.[1]
Il ricovero, naturalmente, non è coercitivo e ha la funziona di contenitore stabile per realizzare: il trattamento psicoanalitico intensivo modificato, finalizzato alla risoluzione dei conflitti; favorire le condizioni di vita protetta, per superare il deficit funzionale e il blocco di sviluppo; aiutare i membri della famiglia. Ogni intervento però, mira esclusivamente ad instaurare, mantenere e far progredire il processo terapeutico, quindi, l’obiettivo principale sembra essere: un cambiamento strutturale della personalità (ibidem).
Il ruolo principale della cura è quello del “therapist”, a cui viene affiancata una seconda figura, l’“administrator”, con la funzione di gestire tutti gli altri aspetti di organizzazione della vita del paziente: dai farmaci, alle attività riabilitative, ai collegamenti con la famiglia.
[1] Marta Vigorelli, Il lavoro della cura nelle istituzioni. Progetti, gruppi e contesti nell’intervento psicologico, 2005, Franco Angeli, p. 101-110