Orfeo o della poesia “civile”

Le nazioni si crearono da loro stesse le proprie divinità, non vi fu un unico poeta ma era la poesia a darsi al popolo stesso, nel popolo stesso: Adunque queste Nazioni tutte si finsero esse gli dèi da se stesse, non già che fussero stati loro imposti da’ Zoroasti, da’ Trimegisti, dagli Orfei, quali sanno stati finora immaginati […] ma queste nazioni furono esse se stesse i Zoroasti, i Trimegisti, gli Orfei [1].

Il nome di Orfeo ebbe molta fortuna nell’Antichità e nel Medioevo, finanche nel Rinascimento. L’esistenza di Orfeo come primo dispensatore della sapienza greca sarà confutata nel Seicento in seguito a particolari accertamenti filologici i quali finirono per compromettere definitivamente tutte, o quasi tutte ( vedremo a tal proposito Gianvincenzo Gravina) le tesi su una sua presunta esistenza storica.

Nel De artis poeticae natura ac costitutione di Gerardo Giovanni Vossio, si afferma l’inconfutabile inesistenza, non solo di Orfeo, ma anche di Museo e Lino. Tutto ciò garantì invece uno statuto privilegiato sia ad Omero che Esiodo, per quanto riguarda lo studio dell’origine della cultura europea[2].

Ancora però qualcuno resisteva e si rifiutava di accettare i risultati scientifici originati da queste indagini filologiche, e cioè: Gianvincenzo Gravina, uno dei massimi intellettuali della cultura meridionale fra il tardo Seicento el l’inizio Settecento. Gravina si ostinava a considerare Orfeo alla stessa stregua di altri nomi illustri come Lino, Dafne, Omero, Esodo[3].

E’ interessante notare come Gravina dicesse: << E’ ben noto quel che gli antichi favoleggiarono d’Anfione e d’Orfeo dei quali si legge che l’uno col suon della lira trasse le pietre e l’altro le bestie; dalle quali favole si raccoglie che i sommi poeti con la dolcezza del canto poteron piegare il rozzo genio degli uomini e ridurli alla vita civile >>[4] . Orfeo è qui considerato come il poeta che libera la plebe dalla rozzezza e dalla volgarità, come colui che risveglia la ragione e le passioni; e facendo leva sulle immagini poetiche generate dal genio fantastico egli riesce ad infiammare la civiltà.

Qualcosa del genere dirà il nostro Autore nella VI Orazione ricordando come Orfeo, ed altri, con la persuasione dell’eloquenza abbiano condotto gli uomini dalla bestialità alle comunità civili: I poeti più sapienti cantarono nei loro miti che Orfeo aveva ammansito con la lira le fiere, che Anfione col canto aveva mosso le pietre e che l’armonia di quel canto rispondendosi l’una sull’altra esse da sole, aveva munito Tebe di mura… Quelle pietre, quelle querce, quelle fiere sono gli uomini stolti, Orfeo e Anfione i sapienti che hanno unito la conoscenza delle cose divine e l’esperienza delle cose umane con l’eloquenza [5].

Fin qui i due pensatori sembrano intendersi. Non s’intenderanno più invece, quando Vico interpreterà Orfeo in modo decisamente rivoluzionario, cioè quando, appellandosi al rigore empirista delle indagini filologiche  – che, come abbiamo visto sopra facevano luce sulla “finzione” cioè sulla “non-esistenza” dell’Orfeo storico –  il filosofo napoletano nella Sinopsi del diritto universale del 1720 – quindi tredici anni dopo la stesura  dalla IV Orazione inaugurale –  indicò una nuova strada che confluiva in una geniale e fruttuosissima domanda: se la natura degli uomini è fatta in modo tale che prima avvertono le cose sensibili e poi nasce il pudore e infine si dilettano con le cose astratte, e se allo stesso modo si dipanò la storia del pensiero poiché prima si ebbero le indagini dei “fisici” – in generale i presocratici –  che indagavano, appunto << le cose che ci toccano i sensi >>[6], e poi  ci fu Socrate che << richiamò la morale dal cielo, [e poi ancora]  finalmente venne Platone e gli altri divini >>[7]:<< Come andò a rovescio la faccenda nel mondo incolto: che Orfeo alle fiere, Anfione ai sassi cantassero la natura e ‘l potere degli dèi, onde gli ammansirono ed unirono nelle città? >>[8].

In questa domanda il Vico sintetizzò sia la conoscenza filosofica che quella filologica: Orfeo, e naturalmente anche Anfione, sono le tracce lasciate dalle antiche civiltà nelle quali si ebbero le cruenti battaglie tra i “signori” e i “clienti”[9]: << E con la publica violenza nacquero le prime republiche, che  sono forse le lire d’Orfeo e d’Anfione >>[10] E’ con questo interrogativo che Vico lastricò un nuovo ed originalissimo sentiero tutto da percorrere: certamente il nostro Autore accettava l’insegnamento vossioniano per quando riguarda la non esistenza di Orfeo, ma, la cosa più interessante per noi, è che seppe sviluppare singolarmente la concezione del nome “Orfeo”, che adesso diviene “carattere eroico”, nome nel quale confluisce l’essenza dei fondatori della nostra civiltà. Quindi né una divinità, realmente e storicamente esistita, come voleva il Gravina,  né il frutto di una mero ‘gioco etimologico’ che poteva limpidamente essere smascherato, come intendeva il Vossio[11].


[1] G.B. Vico, Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, [1725]  vol. I, a cura di T. Gregory, Roma, Ed. Dell’Ateneo, 1979,  p. 25.

[2] Cfr., G. Costa, Vico e il mito di Orfeo, in “Bollettino del Centro di Studi  Vichiani”, 1984-1985, pp.131-149.

[3]Cfr. G. V. Gravina, Discorso sopra l’Endimone, in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 59.

[4] G. V. Gravina, Scritti, cit., p. 209, su cui cfr.  G. Costa, Op. cit. p. 136 e seguenti.

[5] G.B. Vico, Le orazioni inaugurali I-VI, cit., p. 197.

[6] G.B. Vico, Il diritto universale, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, 1936, I, pp. 6-7.

[7]Ibidem.

[8]Ivi, p. 16.

[9] Cfr. S.N., 81.

[10] G.B. Vico, Il diritto universale, cit.  p. 16.

[11]Infatti come ricorda G. Costa nel cit. Vico e il mito di Orfeo:  <<Vossio affermava categoricamente … che Orfeo, Museo e Lino non erano mai esistiti, e proponeva una nuova etimologia fenicia dei loro nomi… >>: (p. 131).