Lotta mortale: una condizione strutturalemente infelice (8/40)

La dialettica servo-padrone descrive in modo concreto l’incontro tra due autocoscienze, tra due esseri autocoscienti che si incontrano scontrandosi nella «lotta mortale» per impedire che l’uno schiavizzi l’altro.[i] Questo processo si risolve nell’amara scoperta che l’eventuale superiorità di uno dei due non assicura nessun controllo sull’altro. È una lotta per l’indipendenza dell’autocoscienza.

L’autocoscienza si raggiunge nel confronto con l’esistenza degli altri, attraverso il riconoscimento delle altre autocoscienze, che non avviene attraverso l’amore, come inizialmente pensava il giovane Hegel ma attraverso la lotta: le autocoscienze si sfidano, sfidando la morte per la libertà, per poter vincere la paura, opponendosi alla sottomissione degli altri.

Nella dialettica servo-padrone, il padrone ha messo a repentaglio la propria esistenza per poter ottenere la propria indipendenza elevandosi al di sopra del servo che invece ha scelto la perdita della propria indipendenza per salvarsi la vita.

Il servo tuttavia dal canto suo diventa essenziale per il signore, dato che dal suo lavoro dipende il suo effettivo sostentamento in vita. Il servo attraverso il suo lavoro dà al padrone ciò che gli necessita per vivere. La sopravvivenza del padrone sarà dipendente a quella del servo. Ed ecco che la logica della sottomissione si rovescia.

Quindi il padrone diventa servo perché al lavoro di questo ultimo è legato la sua sopravvivenza e il servo diviene pertanto padrone del padrone grazie alla sua attività produttiva.

Inoltre, il lavoro dà forma, costruisce, assembla, crea e il servo in ciò che produce, mette tutto sé stesso e non solo la sua forza materiale, mentre il padrone si limita ad utilizzare gli oggetti prodotti. È da qui che poi prenderà piede l’ideologia marxista che ha portato alla beatificazione della classe proletaria. Il servo non avendo cose di proprietà riesce ad avere un controllo sui propri desideri e attraverso il lavoro acquista dignità. Il lavoro tiene a freno l’appetito. I ruoli di partenza non sono persi, ma ad entrambi vi se ne aggiunge uno nuovo, ovvero l’opposto: per il servo il padrone e per il padrone il servo.

Il passato del padrone e quello del servo non viene del tutto perduto, è in parte mantenuto. È il rapporto di Aufhebung, termine che sintetizza sia il togliere che il conservare e che si struttura nei tre movimenti della dialettica, che descrive la dinamica del servo: paura della morte, messa al servizio e lavoro, ovvero: l’indipendenza.

Il terzo momento della dialettica del servo, l’indipendenza, coincide con la filosofia stoica, quella di Epitteto, fondata sul potere di fare a meno delle cose. Qui il rischio è quello di eliminare la realtà che invece continua ad esserci e a influenzare la vita. È ciò che accade allo scettico che ignora totalmente la realtà. Lo scettico mette in dubbio la realtà credendo che tutto sia incerto ed inutile ma allo stesso tempo è alla ricerca di qualcosa di vero e reale.

Quindi la disgiunzione tra l’uno e il tutto, tra l’individuo e la totalità del mondo si ripresenta nella coscienza infelice religiosa attraverso la scissione tra il soggetto e la totalità di Dio.[ii]  In questo caso la scissione è tra la mutevolezza, la variabilità della coscienza individuale e la coscienza incondizionata e immutabile di Dio. Questa frattura è evidente nell’ebraismo che concepisce il dio come un essere trascendente, vero unico padrone della vita e della morte. Con il cristianesimo questa scissione sembra rimarginarsi perché Dio si incarna nell’uomo, ma, la risurrezione, ristabilisce l’ordine iniziale. Cristo risolto ridiventa una divinità, di nuovo si allontana dalla condizione umana, ritorna ad allontanarsi dalla storia degli uomini. Nuovamente la coscienza si separa dall’Assoluto facendo precipitare l’uomo in una condizione strutturale di infelicità.


[i] La coscienza di cui parla Hegel è l’assoluta inquietudine dialettica, ovvero la coscienza che si relaziona con sé stessa e con le altre coscienze e ciò comporta l’istaurarsi di conflitti. Fra due coscienze in lotta prevale quella che sa sfidare la morte, quella che sa vincere la paura della morte, la paura di ciò che nega la coscienza stessa. La vittoria è sul negativo, è l’unico modo per affermare la propria autocoscienza. La coscienza che non ha superato la paura della morte, che non è riuscita a vincere la negazione della coscienza, non riesce a realizzarsi come autocoscienza rimanendo coscienza naturale, serva dell’altra. La dialettica servo-padrone è una lotta per il riconoscimento, un riconoscimento che non si declina solo nella lotta di classi che si contrappongono, ma è la coscienza che è irrequieta perché si dimena per raggiungere la sua indipendenza, per ribellarsi alla dipendenza che nega la libertà, che nega l’autocoscienza in quanto tale. E da qui che poi Marx, come accennavo prima, elaborerà la sua teoria sul capitalismo, cioè partendo proprio dalle categorie schiavo e padrone, anche se in questo caso la liberazione sarebbe solo quella del proletariato che viene beatificato, è così che il maxismo diventa un’altra forma di religione, e come tutte le religioni diventa un sintomo sociale, come dice Lacan in Televisione. Quindi, il rapporto servo-padrone implica che il padrone inizialmente domini il servo, cioè lo renda strumento attraverso il quale poter agire sulle cose. Il padrone, così facendo, consuma le cose limitandosi ad esse, cioè le nega realizzando un’autocoscienza immediata, ovvero un’autocoscienza che non passa attraverso il riconoscimento dell’altro, di sé mediante l’altro. Lo schiavo per acquisire la consapevolezza della sua condizione deve riuscire a superare i limiti della coscienza naturale arrivando ad intravedere una condizione superiore, di libertà. Il padrone domina l’essere grazie alla sua potenza, grazie alla suo aver superato il timore della morte. L’essere (la cosa) diventa così la potenza che pesa sullo schiavo. Così lo schiavo ha sopra di sé il padrone. Il padrone si relaziona all’essere, alla cosa, attraverso lo schiavo. Lo schiavo, in quanto autocoscienza, si relazione negativamente con la cosa, cioè la toglie, se ne priva. Per lui la cosa è indipendente. Tuttavia negandola non potrà mai liberarsene definitivamente. Infatti, lo schiavo, attraverso il suo lavoro la trasforma, trasforma le cose per renderle godibili per il padrone. Dall’altro canto, il padrone, stabilendo un rapporto diretto, immediato, con la cosa, con l’essere, senza passare attraverso l’altro, senza farsi riconoscere dall’altro, nega a sua volta la cosa, cioè cade nel godimento. Esaurisce la cosa, prosciugando il suo desiderio nel godimento che nullifica l’essere, la cosa stessa. Il padrone quindi introducendo la cosa tra sé stesso e l’altro diventa dipendente da essa, la gode, se la gode, ma ne diventa schiavo. Intanto lo schiavo diventa indipendente da essa anche grazie all’azione del padrone. La coscienza del padrone quindi si rivela essere tutt’altro che indipendente.  Egli non fa che negare la cosa consumandola, godendone e così si priva di quell’azione di distanziamento, di oggettivazione indispensabile per la formazione di una vera autocoscienza libera. È qui, in questo passaggio che l’inessenziale prevale sull’essenziale. Cioè, se prima l’essenziale era dominare, prevaricare su di un altro individuo e l’inessenziale consisteva nel sottostare a questa dominazione, sottomettersi, ora tutto è capovolto. Adesso l’inessenziale è la coscienza del padrone, che nel suo essere pigro parassita non riesce più a comprendere ciò che fa, o meglio, ciò che non fa, diventando coscienza dipendente dalla cosa, schiavo di sé stesso. È una coscienza dipendente, la sua verità diventa la coscienza inessenziale. Lo schiavo diventa indipendente, autocosciente, con il suo agire trasforma la materia, la elabora, così la soggettività si incarna nella forma data alla cosa, è una materia che resta ed è riconosciuta dallo schiavo, dal soggetto (a differenza della cosa del padrone che viene goduta senza mediazione, senza il riconoscimento dell’altro).  Ecco che il servo trasforma la propria coscienza, vincendo il timore della morte. Il lavoro compiuto sull’oggetto dal servo porta in sé una quota di impermanenza, infatti l’oggetto si dilegua, ma qualcosa resta, qualcosa è trattenuto. Il servo pensa l’oggetto, cioè, il suo è un lavoro che gli consente quella corrispondenza fra senso estraneo, dell’altro da sé e senso proprio che è sconosciuta al signore. Lavorando l’oggetto se ne distanzia, esso acquista dignità di un “significante”. Detto altrimenti, l’elaborazione sull’oggetto realizzata dallo schiavo gli consente di concettualizzare, di oggettivare la cosa. Il suo è un lavoro di concetto e ciò concilia il fuori e il dentro, l’estraneo e il proprio. Ciò non accade nel padrone, per il quale l’autocoscienza si mostra fuori, nella cosa e non come la verità dell’autocoscienza in sé e per sé. Lo schiavo si rivolge al suo interno, dentro, avendo la coscienza concentrata in sé e ciò gli consentirà di raggiungere la vera indipendenza. L’appetito avvinghia la coscienza del padrone mentre quella dello schiavo, che sembrava destinata ad un rapporto inessenziale con la cosa preserva la sua indipendenza. Paradossalmente, l’appetito del padrone si risolve in una pura negazione dell’oggetto. Infatti, l’appagamento che il padrone ottiene godendo dell’oggetto, è transeunte, fugace, temporaneo. Il lavoro invece tiene a bada l’appetito, lo tiene a freno, lo trattiene. Nel lavoro, che apparentemente relegava la coscienza in una dimensione di estraneità, di alterità, lo schiavo trova la coscienza. Il padrone e lo schiavo agiscono, il primo in modo immediato e il secondo in modo mediato. Il padrone incontra la cosa in modo diretto, attraverso i sensi, seguendo l’appetito. Il servo ha un rapporto concettuale, pensato, riflessivo con l’oggetto. Il padrone è indipendente, si rifiuta di riconoscere lo schiavo e si limita a consumare la cosa trasformata dal lavoro dello schiavo. Quindi lo schiavo domina la cosa ma allo stesso tempo è dominato dalla cosa perché è obbligato a lavorarla, a trasformarla per renderla consumabile dal signore. Il padrone quindi arriva a sottomettere il servo attraverso la cosa. Quindi, sostanzialmente, la differenza tra il servo e il padrone risiede nel loro modo diverso di relazionarsi con la cosa. È grazie alla cosa che sarà possibile il capovolgimento, il superamento delle reciproche posizioni. Lo schiavo, che viene negato dalla cosa, nega a sua volta la cosa, nel senso che la elabora, la trasforma lavorandola. Questa modalità operosa di affrontare la cosa gli fa prendere coscienza di sé stesso proprio nel suo agire sulla cosa. Proprio lavorando la cosa il servo prende coscienza di sé, della sua condizione e del suo rapporto con il padrone. Tuttavia, se per lo schiavo la cosa è trasformata attraverso il lavoro, grazie al quale riesce a mediare ciò che prima lo negava, in quanto era obbligato a lavorare per il padrone, per quest’ultimo il rapporto con la cosa è immediato, diretto, semplice, perché viene consumata, goduta e non trasformata. Il padrone nega la cosa consumandola, togliendola, cancellandola, assorbendola dentro di sé. Il desiderio si consuma, nel consumo dell’oggetto e pertanto l’oggetto viene negato immediatamente, proprio perché il desiderio si appaga velocemente e ciò abolisce ogni attività di pensiero. Invece, lo schiavo, ha fuori di sé l’oggetto, lo ha davanti, come qualcosa di indipendente ed è costretto a confrontarsi con esso, a misurarsi con esso, è costretto a dover agire su di esso e per questo potrà sviluppare delle capacità, che scopre di volta in volta, divenendone cosciente, come soggetto autonomo, indipendente, libero.

[ii] Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di Ermanno Arrigoni, Armando Editore, 2000, p. 89.