Il «no» della libertà (6/40)

Solo con lo stoicismo, cioè con il pensiero, per Hegel è possibile uscire dalla schiavitù, come Epitteto che da schiavo divenne filosofo, lo stoicismo è la libertà che ritorna nella pura universalità del pensiero. Per Hegel la coscienza è “essere pensante”.

Arriano, discepolo di Epitteto, nel Manuale per il conseguimento della felicità descrisse la regola aurea della felicità e cioè che ci sono cose che dipendono da noi e altre che non dipendono da noi. Da noi dipendono il giudizio di valore, l’impulso ad agire, il desiderio e l’avversione, cioè tutti quelli che sono «fatti nostri». Da noi non dipendono il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, ovvero tutti quelli che non sono propriamente «fatti nostri».

La felicità per Epitteto è vincolata alla capacità di saper identificare attraverso l’uso della ragione (proairesi) ciò che serve per raggiungere una condizione di felicità. Per poi distinguere quale scelta è la migliore (diairesi), ovvero ciò che è in nostro esclusivo potere, evitando ciò che non lo è. La proairesi è la facoltà razionale, propria di tutti gli esseri umani, che permette loro di dare significato e distinzione alle esperienze sensibili che di per sé sono indeterminate. L’uso della ragione, consente di attribuire un significato alle cose sensibili rendendole distinte le une dalle altre, cose che altrimenti apparirebbero come un tutt’uno indeterminato. Quindi, la percezione in quanto tale, non ha alcun senso, il senso glielo diamo attraverso la ragione, e glielo diamo noi.

Grazie alla proairesi è possibile la diairesi, il discernimento che precede ogni nostra scelta. Tale discernimento ci serve per poter esprimere un giudizio sulla possibilità di usare certe cose oppure di essere impossibilitati ad usarle, cioè se ce le abbiamo a disposizione oppure no. I nostri progetti, i nostri desideri, le nostre ipotesi sul mondo, possiamo solo noi dominarle, amministrarle gestirle, sono cioè in nostro esclusivo potere ed Epitteto le ha chiamate «proairetiche».

Il nostro corpo, il lavoro, il patrimonio, il successo, il comportamento degli altri, gli eventi esterni, non sono in nostro pieno (ma parziale) potere ed Epitteo, le chiama «aproairetiche». Per Epitteto l’infelicità si annida proprio nella pretesa che le cose che non ci appartengono debbano diventare nostre o pretendere che gli altri debbano comportarsi come noi vogliamo o che gli eventi debbano andare così come noi desideriamo, sempre, ogni volta, tutte le volte. Sono questi i casi in cui il comportamento dell’uomo si allontana dalla sua naturale razionalità (proairesi) per diventare innaturale. Ecco che in questi casi si rinuncia alla diaresi per precipitare nell’irrazionalità, nella controdiairesi che inevitabilmente conduce all’infelicità. Il buon uso della ragione (proairesi) nel giudicare (diairesi) ciò che è fondamentale, ciò che è in nostro potere, ciò che serve veramente o che non serve affatto è ciò che può renderci felici. Il bene e il male dipendono esclusivamente da noi esseri umani, dalla nostra ragione che deve indicarci l’impossibilità di raggiungere la felicità nel possesso delle cose o in qualcosa che gli altri possono fare per noi o contro di noi o nel pretendere che le cose vadano così come noi desideriamo. Quindi l’affannosa ed infruttuosa ricerca della felicità, causata dal perseguire o evitare cose ed eventi non in nostro potere, è l’effetto del non uso della proairesi e diaresi. In alternativa chi farà un buon uso della ragione e del giudizio sarà in grado di rispettare il reale delle cose e sarà libero e non avrà bisogno di altro. Ma per mantenersi in questo stato di libertà, continuamente sottoposto ad «attacchi» provenienti anche dalla banalità della vita quotidiana, dobbiamo imparare a dire «sì» oppure «no», a dare l’assenso o il dissenso alle rappresentazioni mentali che si formano giorno dopo giorno. Dobbiamo usare con estrema attenzione la nostra ragione per far fronte alle questioni che sorgono quotidianamente nella nostra vita: il bene e il male dipendono dai nostri giudizi, quindi è inutile, per esempio, considerare la morte un bene o un male in quanto essa non dipende da noi. «Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti.» In Epitteto, come del resto in Seneca, abbiamo qualcosa che dipende da noi e qualcos’altro che non dipende da noi. Nel primo caso, cioè rispetto alla posizione che assumiamo nei confronti delle rappresentazioni mentali del mondo, è possibile la libertà, anche se è una libertà che non ha presa sulle cose, sul reale, sull’essere che non dipende da noi, ovvero su ciò che non è in nostro potere di governo. La libertà di cui si parla in questo caso concerne quella che possiamo esercitare sulle rappresentazioni delle cose, e solo su queste si fonda il nostro giudizio di bene e di male. Ovviamente tutti sanno che il bene è utile e pertanto è stupido non cercarlo. I problemi iniziano quando riflettiamo su cosa sia bene e cosa male. In tal senso Epitteto riprende il concetto aristotelico di “scelta preliminare” che rende possibile la valutazione corretta delle cose. Ma, di nuovo, il punto cardine è comprendere se quelle cose dipendono da noi oppure no. Quindi c’è una dimensione della vita in cui noi possiamo essere liberi, padroni ed un’altra in cui non possiamo, dove siamo qui schiavi. Ecco l’invito di Epitteto a non darsi troppa pena per far sì che gli avvenimenti seguano il nostro desiderio, ma desiderarli così come avvengono, affinché la nostra vita possa scorrere serena. Non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è illogico, cioè non possiamo affannarci ad esercitare il nostro potere su un regno che non ci appartiene perché non dipende da noi. È illogico credere che le cose debbano andare proprio così come noi pensiamo che debbano andare. È accettabile auspicarselo, sarebbe piacevole che le cose andassero così come noi desideriamo, ma da qui non possiamo pretendere che le cose vadano, necessariamente, come noi desideriamo. Quindi, di nuovo, non sono i fatti in quanto tali a turbare ma i giudizi che formuliamo su di essi. Quando siamo afflitti, tristi, depressi, è colpa dei nostri giudizi, delle nostre credenze irrazionali.